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L’OPERAIO (30 anni)


Quando hanno cominciato a convivere legalmente, mio padre era invalido e aveva avuto alcune esperienze con la legge e mia madre aveva avuto un matrimonio fallito. Non era proprio mio padre, ma così io l’ho sempre considerato. Così avevo tre fratelli per parte di madre, di cui il più vecchio era nato da un matrimonio di mia madre, poi ero nato io da un’altra relazione, e i due più giovani da questa convivenza.
 Sono stato molti anni in diversi collegi, come anche i miei fratelli, ma non lo sopportavo e sono scappato più volte. Fin da piccolo ho cominciato a rubare perché ne avevamo bisogno, ma non portavo a casa i soldi, perché sapevo che mio padre non voleva, per cui portavo casa la roba comprata con quei soldi. Finché mi hanno messo in riformatori dopo la terza elementare, perché non ero ancora punibile per il carcere minorile, con la relazione dell’assistente sociale che mi definiva intollerante per la scuola. Lì ho concluso gli studi e mi sono diplomato in ragioneria. Da lì sono anche scappato, incontrando poi fuori un compagno che aveva avuto la stessa idea. Abbiamo fatto un tratto di strada in bicicletta, poi abbiamo rubato un’auto e siamo arrivati al mare, dove siamo stati alcuni giorni rubando dalle cabine prima di essere riportati indietro. Comunque al riformatorio mi sono diplomato in ragioneria.
 Quando sono uscito ho fatto svariati lavori di cui il primo è stato in un’impresa di pulizia presso una grande azienda, di notte, per otto o nove mesi. Poi ho lasciato perdere perché preferivo la vita più libera, girare con gli amici, vivere di espedienti. Non mi sono mai messo nella droga perché pensavo che se rubavo o rapinavo un negozio quello veniva risarcito dall’assicurazione, mentre con la droga si rovina la gente, gli si toglieva la vita. E poi allora era più facile, non c’erano allarmi né guardie giurate. Anzi, sono rimasto molto male quando ho visto che tutti quelli che conoscevo si mettevano nella droga, e soprattutto quando uno di loro ha cominciato a venderla a uno dei miei fratelli più giovani. Il calvario che ho passato con mio fratello, dentro e fuori dagli ospedali, mi ha fatto odiare ancora di più quella roba.
 Ho conosciuto una ragazza, che poi sarebbe diventata mia moglie, con cui mi ero quasi messo a posto. Ma poi ci siamo bisticciati, ci siamo lasciati, e sono tornato al mio solito ambiente. Ma quando sono stato ricoverato in ospedale, perché avevo avuto un conflitto a fuoco con certa gente, lei è venuta a trovarmi e abbiamo ricominciato.
 I suoi parenti mi hanno fatto avere un posto in una grossa fabbrica, che ho tenuto per due anni. Ma non mi sentivo a mio agio perché dovevo della riconoscenza forzata a questi parenti e avevo sempre sperato di riuscire a mettermi in proprio. In quella fabbrica non esisteva sindacalismo, non esistevano diritti, nel senso che se uno aveva dei problemi doveva rivolgersi individualmente al padrone, che così evitava ogni vertenza, e questo era un altro motivo per cui me ne sono andato.
 La decisione di licenziarmi l’ho presa quando ho conosciuto uno che girava vicino me e che si occupava della manutenzione dei bruciatori e delle caldaie. Ho lavorato un po’ con lui per impratichirmi e, dopo sei o sette mesi, mi sono comprato un furgone, mi sono messo in società con uno dei miei fratelli, mi sono regolarmente iscritto all’artigianato e ho cominciato a fare questo lavoro. Devo ammettere che mi dava soddisfazione, mi divertivo anche, non avevo vincoli ed esprimevo le mie capacità personali, era una cosa che avevo fatto io.
 Come tutte le cose belle è finita, il giorno che i carabinieri si sono presentati a casa, mi hanno portato in caserma e mi hanno accusato di una rapina a mano armata avvenuta alcuni mesi prima. Io ho negato, sono stato prosciolto in istruttoria e rilasciato dopo quatto mesi. Ho riperso la mia attività, sia pure con grosse difficoltà anche perché la cosa aveva avuto una certa pubblicità ma, dopo nove mesi, i carabinieri mi hanno arrestato di nuovo per lo stesso fatto. Il giudice ha detto che questa volta aveva le prove che io vi avevo partecipato, senza dirmi quali, e mi ha rinviato a giudizio sulla base di queste voci confidenziali.
 Dopo un anno alle Nuove c’è stato il processo di primo grado in cui il giudice, dopo due udienze, ha ordinato un supplemento d’istruttoria per appurare la natura di queste voci e ha rinviato il dibattimento. Alla ripresa del processo la natura delle voci non era stata appurata, sono stato assolto per insufficienza di prove e sono uscito la sera stessa.
 Mi sono ritrovato in mezzo alla strada, tutto quello che avevo fatto era andato distrutto, e per di più avevo grossi problemi famigliari. Ho cercato di rimettermi in carreggiata, ma avevo bisogno di soldi, mi sono rimesso negli espedienti, a fare del contrabbando, quelle cose lì. All’appello a piede libero l’assoluzione per insufficienza di prove è stata confermata e mi sono rimesso l’anima in pace, ero sicuro che era una cosa finita. A poco a poco ho pagato i debiti e mi sono rimesso a lavorare, sempre in mezzo alle caldaie.
 Sono arrivato all’estate, quando i carabinieri mi hanno di nuovo arrestato per lo stesso fatto e portato questa volta al carcere di Pinerolo. Quando il giudice mi ha interrogato mi sono trovato davanti una persona che avevo già visto un paio di volte nell’ambiente, che ammetteva di aver partecipato a quella rapina e mi accusava. La sua esposizione aveva però molti vuoti, tra cui i nomi degli altri partecipanti, che lui spiegava sostenendo che noi gli avremmo affidato un ruolo marginale, come autista, senza informarlo di nulla.
 Al primo grado sono stato condannato a undici anni, e sono stato trasferito nella casa penale di Fossano. La prima impressione non è stata male, ma c’era una tale monotonia, le giornate erano tutte uguali, i contatti con la famiglia erano del tutto spezzati. Non c’era nessun servizio sociale, nessun dialogo con l’esterno. Poi ho avuto un battibecco con un altro detenuto e mi hanno mandato a Saluzzo, un altro penale, dove mi sono trovato male. Era molto piccolo rispetto all’affollamento, ad esempio in un cortile di 25-30 metri prendevano l’aria 200 detenuti, cioè tutti quelli dell’istituto, e nei cameroncini stavamo in 14-15.
 Sono tornato a Pinerolo per l’appello, dove mi hanno diminuito la pena a otto anni e un mese e, tornando in carcere, mi ero trovato a tu per tu, nella matricola, con l’individuo che mi aveva accusato. Gli sono saltato addosso, gli ho dato in testa una sedia, e l’hanno portato all’ospedale dove gli hanno dato dieci giorni di prognosi. Così mi hanno portato nella sezione speciale di Novara, dove sono stato pochissimo tempo perché era piena.
 Infatti dopo una settimana i carabinieri mi hanno rimesso sul blindato, senza dirmi dove andavamo, e mi sono trovato all’Agrippa, la sezione speciale dell’isola di Pianosa, dove era in vigore l’art. 90. Per la prima volta ho avuto paura, per la netta impressione che le guardie potessero disporre di noi a loro piacimento e che noi fossimo soggetti a qualunque sopruso passasse loro per la testa. Abbiamo anche provato a mandare fuori qualche lamentela, raccolte di firme e cose del genere, ma si è rivelato impossibile. I colloqui avvenivano con il vetro divisorio, con le guardie presenti, e venivano registrati, la posta partiva e veniva consegnata quando volevano loro. Per i giornali era soggettivo, la guardia che montava nella sezione poteva consegnartelo intero oppure, se ce l’aveva con te, tagliare gli articoli che, secondo lui, non dovevi leggere. Magari nella stessa sezione un altro poteva leggere l’articolo che a te era negato.
 L’igiene era spaventosa, l’acqua non esisteva, i primi tempi davano un litro d’acqua in busta al giorno per bere, lavarsi, per tutto, quando funzionava. Ma se il mare era agitato la nave saltava il viaggio, poiché non c’era un vero porto, ma solo una banchina con un pilone di ferro, e allora bisognava fare bastare sette litri per due settimane. Sull’isola i pozzi non mancavano, ma per il lungo sfruttamento si erano prosciugati, e si sarebbe dovuto trivellare più a fondo. Per qualcosa è stato fatto, ma solo per le guardie, mentre l’acqua che usciva dai nostri rubinetti era piena di vermi. Dovevamo comunque usarla quando quella delle buste non bastava, e la direzione la usava per la cucina dei detenuti.
 La sanità era inesistente, i medici ci sono, ma sono tutti generici, nessun specialista. Per essere visitati da uno specialista occorrono dei mesi, poi le visite vengono svolte tutte d’estate perché i signori sono attirati dalla vacanza gratuita. Ricordo un ragazzo che lavorava nella cantina che faceva da segheria. Si era fatto un profondo squarcio al polso con la sega circolare, ed è stato due giorni all’isola solo con i punti di sutura. Non esistevano per lui sale chirurgiche né i mezzi per portarlo con il mare agitato. Solo dopo molte sollecitazioni di una dottoressa, quando è stato trovato un pilota disposto a partire anche con il mare agitato, è stato portato all’Elba. Nessuno era in grado di diagnosticare, e tanto meno di fornire le cure immediate, nel caso di ulcere perforanti, appendiciti o ernie.
 In cella non si poteva tenere niente, né fornelli né caffettiere né pentole. Per qualunque cosa servisse, come il rasoio per farsi la barba, bisognava farselo consegnare dalla guardia e restituirgliela dopo. Si facevano due ore d’aria, solo con le stesse due persone della cella. Solo ultimamente avevano permesso a qualcuno di tenere qualcosa in cella o fare l’aria insieme a qualcun altro di altre celle. Ma in questi casi bisognava sottoscrivere una dichiarazione in cui ci si assumeva ogni responsabilità per il fatto di fare l’aria con altri.
 C’era poi il braccio della morte, più piccolo, dove stavano quelli che, in altre carceri, avevano aggredito guardie, che avevano tutte le nostre condizioni e, in più, niente giornali né posta né colloqui, e ogni guardia era autorizzata a dare loro botte anche tutti i giorni.
 In questo periodo ho allentato i rapporti con mia moglie, più che altro per causa dei suoi parenti che non mi hanno mai visto di buon occhio e, ovviamente, quando sono stato arrestato gliel’hanno anche rinfacciato. Non abbiamo però interrotto del tutto e sono sicuro che riprenderemo, tant’è vero che ci scriviamo ancora regolarmente. Ma ci scriviamo attraverso una sua amica, in modo che i suoi parenti non sappiano nulla, il che mi dà moltissimo fastidio, perché siamo adulti e dovremmo essere liberi nei nostri sentimenti.
 Dopo un anno e mezzo sono passato con altri due alla diramazione Giudice, nella sezione normale e, per prima cosa, ci ha convocati tutti e tre il brigadiere che fungeva da capo-diramazione per dirci che lì era tutto diverso, che potevamo chiedere tutto ciò di cui avevamo bisogno, tipo papà buono che vede tornare il figlio, anche se era uno di quelli che all’Agrippa dava botte.
 Era possibile lavorare, per impegnare il tempo e guadagnare qualcosa, anche se era poca cosa perché lì la mercede arrivava al massimo a 260.000 lire al mese contando anche il fondo vincolato, la più bassa di tutti i carceri. Sono quasi tutti cameroni, tranne due o tre celle singole o a due posti, per accaparrarsi le quali è sempre una guerra. Dopo tanto isolamento non mi è dispiaciuto in un primo tempo buttarmi in mezzo alla gente, ma poi la convivenza forzata ha cominciato a darmi fastidio e, dopo dieci mesi, sono riuscito a conquistare una cella singola.
 Nel frattempo avevo cominciato a lavorare al sopravitto, come ho fatto fino a un mese prima di venire qui e, un giorno, mi è venuto in mente di scrivere all’Olivetti per spiegare che ero detenuto, che avevo bisogno di una macchina da scrivere e chiedevo se potevano mandarmene una usata. Quando è arrivata, il brigadiere mi ha detto che non potevo tenerla e l’ha messa in magazzino. Io ho fatto la domanda al direttore, dopo un po’ mi hanno detto che la domanda era stata accolta, ma il capo-diramazione non ha voluto darmela lo stesso perché, ha detto, avrei potuto battere volantini o petizioni. Io insistevo, e allora mi hanno fatto rifare la domandina, specificando che l’avrei tenuta nell’ufficio dove lavoravo, sempre in presenza delle guardie, e così è stato. Poi è arrivato un tipo in civile, credo fosse un ispettore del ministero, che ha visto la macchina e ha chiesto di chi fosse. La guardia presente disse che era dell’ufficio, ma io ho subito precisato che era mia, ma che non mi veniva concesso di tenerla in cella. Il tipo ha detto che non era giusto, che per sicurezza bastava registrare i caratteri e che potevo tenerla in cella. Appena se n’è andato io, senza chiedere più niente a nessuno, ho preso la macchina, l’ho chiusa in una custodia e me la sono portata in cella. Il giorno dopo il capo-diramazione l’ha presa per un giorno, per poi restituirmela, credo per registrare i caratteri, e non ho mai più avuto problemi. Ma a ogni perquisizione la guardia che non era stata informata la sequestrava e la portava in magazzino, e ogni volta dovevo farmela restituire.
 I colloqui avvengono quattro volte alla settimana, poi è uscita la normativa che consentiva colloqui prolungati, ma di fatto erano impossibili perché l’aliscafo doveva ripartire. I parenti che si imbarcano a Piombino devono dichiarare con chi fanno il colloquio ai carabinieri, che informano la matricola che a sua volta dovrebbe avvertire il detenuto affinché si prepari prima che il parente arrivi, ma non lo faceva mai. L’aliscafo arrivava sull’isola alle ore 10,30, alle 11 se il mare era agitato, ma i colloqui iniziavano solo alle 13, per cui i parenti dovevano stare sull’isola ad aspettare. Quando uno è scarcerato dove pagare il biglietto dell’aliscafo, ma se il mare è agitato deve rimanere all’addiaccio perché l’unico albergo è stato chiuso. Ricordo di uno che, non potendo partire, volevano metterlo all’Agrippa, ma noi abbiamo insistito e ottenuto di farlo dormire con noi.
 I giornali arrivavano solo alla sera, perché la guardia che, con la moglie, gestisce lo spaccio, usa i mezzi dell’amministrazione, tipo la jeep, per portare la spesa, invece di un mezzo suo, e quando non sono liberi non la porta. Prendevamo l’aria in una cortile al cui centro c’era un grosso capannone che avrebbe dovuto essere il nostro refettorio, e invece è diventato la palestra delle guardie. C’erano otto docce, di cui solo quattro funzionanti, per duecento persone in mezzo al cortile. C’era un corridoio che permetteva di raggiungerle passando al coperto, ma poi il brigadiere l’ha chiuso, per cui bisognava fare un lungo giro all’aperto, anche d’inverno. Noi abbiamo raccolto le firme e l’abbiamo fatto riaprire.
 Ho chiesto il trasferimento, un giorno mi hanno detto che l’avevo ottenuto, e mi è sembrato di rinascere. Mi hanno confermato che a Pianosa non sarei tornato mai più, per cui ho regalato tutto ciò che avevo. Ho lasciato la macchina da scrivere nell’ufficio dello scrivano, ma mi hanno costretto a firmare una dichiarazione in tre copie che la regalavo allo scrivano. In realtà non era mia intenzione regalarla a quel particolare scrivano, ma allo scrivano in generale, cioè lasciarla a disposizione della diramazione.
 Ho fatto il transito a Firenze, il cui regolamento era molto rigido, quasi come in uno speciale, si stava chiusi in cella ventidue ore al giorno, e addirittura bisognava camminare in fila indiana, senza fermarsi davanti alle altre celle nemmeno per un saluto, con la perquisizione ogni volta che si usciva dalla cella. Inoltre noi del transito non abbiamo potuto fare la spesa per tutta la settimana che siamo stati lì. Infine sono arrivato qui a Ivrea, dove però m hanno detto che sono stato trasferito qui solo per due mesi per fare i colloqui, poi devo tornare a Pianosa. Sono andato a udienza dal direttore per chiedergli di lasciarmi qui, ma mi ha detto che non è di sua competenza. I due mesi sono quasi finiti, non ho nessuna voglia di tornare laggiù, e per di più non ho fatto nemmeno un colloquio.