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Il carcere di Ivrea è stato aperto nell’80, e risponde ai criteri che oggi ispirano tutte le carceri di nuova
costituzione. E’ piccolo, non ospita mai più di 200 detenuti, suddivisi in sezioni di 20. Le celle sono quasi tutte singole,
e per questo sono aperte fino alle ore 18. I detenuti delle diverse sezioni
possono occasionalmente incontrarsi durante la messa domenicale o nel campo di
calcio. Inoltre c’è una sezione denominata “osservazione” che serve da isolamento, una denominata “transito” e una differenziata, che avrebbe dovuto essere femminile e invece ospita “pentiti” quasi tutti per reati comuni. Queste ultime sezioni, ovviamente, non hanno
accesso né alla messa né al campo. Ogni anno si tengono due corsi retribuiti organizzati dalla Regione
di elettronica industriale e di impiantistica civile, e uno non retribuito
organizzato dal Comune per il conseguimento della licenza media, i cui iscritti
occupano una sezione apposita. La principale caratteristica di Ivrea, come di
tutti i nuovi istituti, è dunque la flessibilità, nel senso che dispone di alcune risorse ricreative e culturali, ma al tempo
stesso singoli detenuti o intere sezioni, grazie alle loro ridotte dimensioni,
possono facilmente in ogni momento essere isolate dalle altre ed escluse da
ogni attività collettiva, dal campo alla messa ai corsi, come a volte è successo.
Quando entrai in questo carcere nuovissimo ai primi dell’agosto ’83 non sapevo che ci sarei rimasto fino al gennaio ’86. Ero già stato in carcere anni prima, e quindi non impiegai molto a riabituarmi ai
piccoli riti che formano la realtà carceraria quotidiana, quali il libretto della spesa, la battitura delle
sbarre, le perquisizioni all’alba. Soprattutto non sapevo che avrei scritto le storie di vita, sia perché non avevo mai fatto una cosa del genere prima, sia perché non sapevo che i rapporti con alcuni dei miei compagni si sarebbero sviluppati
al punto da renderle possibili. Mi era chiaro che la comunicazione è la cosa più incompatibile con un’istituzione il cui fine, al di là della migliori o peggiori condizioni materiali di vivibilità, è proprio quello di impedire o comunque regolamentare le relazioni sociali sia
all’interno che verso l’esterno.
Sulla composizione dei detenuti di Ivrea c’è poco da dire, in quanto essa rispecchia quella nazionale circa l’abbassamento dell’età media e l’innalzamento del livello medio di scolarizzazione. Circa metà degli ospiti di Ivrea proviene dal Canavese o comunque dal Piemonte, gli altri
sono siciliani, calabresi o napoletani. Le prime due componenti sono di
immigrati da una o più generazioni, i napoletani invece sono stati trasferiti appositamente, tanto che
alcuni di loro non avevano mai sentito nominare Ivrea prima. La quasi totalità (inclusi i piemontesi) sono imputati di spaccio di sostanze stupefacenti, con o
senza associazione per delinquere. I tradizionali reati contro il patrimonio
come furto, truffa o rapina si trovano solo in soggetti reclusi già da qualche anno. Moltissimi al momento dell’arresto erano tossicodipendenti, quasi tutti giovani e dell’Italia del Nord.
Dopo qualche mese mi iscrissi ai corsi professionali e fui trasferito nella
sezione degli “studenti”. Chi si trova segregato sviluppa una particolare abilità per superare nei modi più impensati le barriere da cui è circondato, per comunicare affetto o informazioni. Anche i detenuti di Ivrea
erano abilissimi a condensare in pochi minuti i saluti agli amici delle altre
sezioni al campo o alla messa, prima che intervengano le guardie, tutti
aspettavano con ansia il colloquio settimanale, ripassando le cosa da dire o
farsi dire, almeno i fortunati a cui la distanza dalla famiglia permetteva di
fare i colloqui, o la posta quotidiana, sperando sempre di sentire chiamare il
proprio nome. La tensione a comunicare dei detenuti, proprio a causa della loro
minore integrazione nei circuiti d’informazione metropolitani, passa anche attraverso i mass media, anche nei modi
più ingenui come le lettere a “Specchio dei tempi.” I corsi si prestano in modo particolare alla comunicazione e alla socialità, anche per la sensibilità di alcune insegnanti, e le ore di “cultura generale”, che avrebbero dovuto essere esclusivamente dedicate alla storia, alla
geografia e alla letteratura, erano spesso occupate da discussioni a ruota
libera sugli argomenti più disparati, anche d’attualità.
La notizia di un prossimo convegno a Torino sul problema della paternità in carcere ha quindi fatto subito emergere l’esigenza di inviare un proprio contributo, e io ho avuto l’idea di dare a questo contributo la forma dell’intervista perché più adatta di tante analisi a rendere il punto di vista individuale. Ho quindi
sottoposto a chi viveva questo problema una serie di domande, che ho poi
trascritto con le relative risposte, fondendole in modo che sembrasse una
specie di “tavola rotonda”. Il risultato è stato quindi letto e discusso collettivamente nel locali dei corsi, con le
diverse classi riunite, e ulteriormente arricchito. Queste interviste non sono
mai arrivate a quel convegno, ma sono state pubblicate poco dopo da una rivista
che ha fatto il giro della sezione, e la piacevole sorpresa ha accentuato il
bisogno di parlare di sé di chi non aveva mai avuto la possibilità di farlo, proprio attraverso quei mass media da cui è sempre stato escluso. D’altro canto nel corso delle interviste io avevo rilevato una ricchezza di
esperienze umane che ritenni dovessero essere conosciuta anche da chi non è mai stato in carcere. Per fare un esempio, uno degli intervistati residente a
Torino mi ha raccontato di essere stato in passato trasferito in posti lontani
come Firenze e Sulmona. Per questo i colloqui con sua moglie si erano fatti
sempre più rari, fino alla rottura del rapporto, tant’è vero che aveva in corso la pratica di separazione. Ma quando ha chiesto di
usufruire del beneficio della semilibertà se l’è visto rifiutare con la motivazione che, essendo separato dalla moglie, non
forniva sufficienti garanzie di reinserimento sociale.
Allora ho deciso di provare a scrivere qualcosa di più organico, abbandonando la forma dell’intervista, scegliendo coloro con cui maggiore era il grado di reciproca fiducia
e lasciandoli parlare liberamente, al di là di uno specifico problema. Il campione e il metodo sarebbero sicuramente
inattendibili per una ricerca sociologica, ma non era questo che mi interessava
un quel momento. Le storie mi sono state raccontate seduti per terra nel
cortile durante l’”ora d’aria” o nelle celle dopo cena in attesa della chiusura. Io abbreviavo le parole, in
modo d riportare il più fedelmente possibile le espressioni del narratore, poi ribattevo il testo a
macchina, la cui detenzione era consentita e infine rileggevo la nuova stesura
al narratore, che poteva quindi apportare aggiunte e correzioni. Ho adottato il
criterio di omettere i nomi veri, sia delle persone che delle città, perché per alcuni di loro il procedimento penale era ancora in corso e la condanna non
era definitiva. Ho fatto eccezione per Napoli, troppo caratteristica e quindi
inconfondibile, e per le città estere. Ho conservato anche i nomi delle carceri, perché esse, al contrario, venissero identificate, soprattutto nei loro aspetti più retrivi.
Il risultato è un documento che conferma i dati già noti rispetto all’età, alla scolarità e alle imputazioni, ma anche qualcosa di più. Dalle storie emerge la percezione di sé e del mondo di persone che hanno studiato, lavorato, viaggiato come tanti loro
simili, prima che succedesse “qualcosa che li portasse in questo mondo distorto fatto, appunto, di libretti
della spesa, battiture di sbarre, perquisizioni all’alba, colloqui con il bancone. Le differenze delle personalità e dei caratteri si notano nel fatto che alcuni abbondano di dettagli sulla loro
vita antecedente alla detenzione, accennando appena a quest’ultima, mentre altri superano di volata il periodo di libertà, troppo breve o troppo lontano, per dipingere nitidi quadri di vita carceraria.
C’è chi privilegia la descrizione dei fatti e delle persone, chi quella delle
proprie sensazioni, speranze e contraddizioni, chi invece si sforza di esporre
le proprie idee sull’istituzione carceraria, sul diritto, sulla società. Un’ultima annotazione: nessuno dei miei interlocutori ha avuto un passato di
militanza politica, ma molti sono stati sfiorati dai movimenti di massa del
decennio trascorso, anche se poi hanno imboccato percorsi del tutto diversi.
Sembra quasi che a chi in quegli anni frequentava una scuola o lavorava in una
fabbrica fosse impossibile non partecipare almeno a un’assemblea o a un corteo, a riprova dell’estensione degli strati sociali coinvolti
in quegli stessi movimenti.
su Primo Maggio n.26 – inverno 1986-1987
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