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IL PUGILE (27 anni)


Mio padre faceva l’operaio, io ero il maggiore di tre figli, la mia famiglia viveva in Abruzzo. Si è trasferita in Liguria quando io avevo otto anni, perché mio padre lavorava alle autostrade. Poi sarebbe tornata giù, mentre io sarei rimasto. Ho studiato fino alla prima media, poi mi sono messo a lavorare un po’ qua un po’ là, perché così ha voluto mio padre, ma io non ne avevo voglia.
 Ero un ragazzo di strada, dovevo tornare a casa presto altrimenti mi chiudevano fuori, dicevano che non mangiavo se non lavoravo. Molte volte ho dovuto rientrare in casa dalla finestra, mio padre non sapeva come facevo. Sono stato arrestato due volta da minorenne, una volta per furto di uno stereo per passatempo, passavo sotto i portici, c’era un negozio chiuso da una saracinesca a maglia, io ho infilato la mano e ho preso le arance, il metronotte mi ha visto e si è messo a sparare in aria. Mi hanno messo nel carcere per adulti, non so perché dato che c’era il carcere minorile. Ero quasi orgoglioso di essere lì, secondo la mentalità che avevo allora, era un mondo nuovo che mi affascinava. Quando sono uscito mi è dispiaciuto lasciare alcuni compagni che vi avevo conosciuto, avevo trovato l’amicizia, mi sembravano tutti molto gentili.
Un giorno, a diciassette anni, mi sono picchiato in strada e le ho buscate da uno più grande, di circa ventotto anni, di qui il pallino per il pugilato. Avevo un amico che lo faceva, un giorno l’ho accompagnato in palestra, ho visto come faceva, e ho cominciato anch’io. Il maestro ha visto che andavo bene, è diventato quasi un padre per me, mi aiutava, mi manteneva a mangiare e dormire in una pensione, mi dava dei soldi che poi erano della società. Sono arrivato tra i primi a due campionati regionali, poi ho fatto quelli nazionali, e anche lì ho avuto ottimi risultato. Ma non facevo seriamente, più che altro mi sfogavo, avevo in testa altre cose.
A diciotto anni uscivo con una ragazza di diciassette, lei è rimasta incinta, la prima idea è stato l’aborto, lei era d’accordo. Allora non era legale, avremmo dovuto farlo di nascosto, e poi sarebbe stato costoso. Noi eravamo due ragazzi, non sapevamo come fare, così sono venuti a saperlo i suoi genitori. Loro sono calabresi, l’hanno picchiata per sapere chi era stato, allora mi sono presentato per dire che non potevo sposarla perché ero troppo giovane, non potevo mantenerla, non avevo nemmeno la casa. Loro hanno voluto che ci sposassimo lo stesso per il suo onore e che vivessimo con loro finché non avessimo trovato la casa. Così ci siamo sposati davanti al giudice che ha chiesto il loro consenso dato che lei era minorenne, il mio maestro ha fatto da testimone.
La convivenza con i suoceri era difficile, c’erano litigi tutti i giorni, ma non riuscivo a trovare una casa. Le case c’erano ma le affittavano solo come seconda casa, quindi con un affitto molto più alto. Volevano il certificato di residenza da un’altra parte, ci voleva uno stipendio intero per pagare l’affitto, non era possibile.
Il maestro mi ha trovato lavoro in una fabbrica di articoli scolastici di cento dipendenti. Io portavo il lavoro a domicilio con il furgone, andava bene perché ero sempre in giro, se avessi avuto dovuto stare al chiuso non avrei resistito cinque anni. Mi sono iscritto al sindacato, erano iscritti quasi tutti. Ci si imboscava spesso al magazzino, si discuteva, ci si sentiva più liberi. Sopra invece c’erano i macchinari, c’era più casino, e si era più controllati. Quasi ogni settimana qualche sindacalista veniva a parlare, io sono stato eletto delegato con più voti di tutti. Mi hanno votato soprattutto le ragazze, mi vedevano più cattivo, nel senso che facevo notare tutte le cose che non andavano su cui gli altri invece sorvolavano. Alcuni usavano anche i permessi sindacali, per esempio durante le assemblee, per uscire e fare la spesa anche se non si poteva, ma la direzione li lasciava perché in fondo facevano un favore. Io invece mi impuntavo, e questo era simpatico alle ragazze. Un giorno abbiamo fatto casino perché dovevano dare le case popolari. Io avevo fatto domanda, tutti dicevano che se non la davano a me non la davano a nessuno. Invece sono stato l’ultimo della graduatoria, l’hanno data a gente che stava bene come commercianti o carabinieri. Io ci speravo tanto, avere una casa solo per me e mia moglie avrebbe risolto tutti i problemi.
Mentre lavoravo in fabbrica mi allenavo con la boxe, alla sera ero stanco, sono stato anche un anno senza fare niente. Poi, visto che la casa non la trovavo e il lavoro non mi piaceva, resistevo solo perché avevo moglie e figlia, ho deciso di tornare sul ring, stavolta solo per soldi, per potere stare meglio, non più per passione. Ma avevo grossi problemi famigliari, ero nervoso, non rendevo, magari vincevo anche senza allenamento, ma poi non facevo nulla per sette mesi. Il maestro veniva a casa, mi offriva soldi, mi spingeva, ma io non facevo nulla.
Ho lasciato la fabbrica quando ho trovato un lavoro in cui guadagnavo di più, il barman in una discoteca, fino a due milioni al mese. Stavolta credevo di potere pagare l’affitto quando è arrivata una buona notizia, cioè che i suoceri tornavano in Calabria lasciando libera la casa. Ma alla buona notizia ne è subito seguita una cattiva, cioè che i padroni volevano fare anche qui l’affitto da seconda casa, che ho accettato lo stesso perché era inferiore ad altri. Ma poi hanno detto che era solo per due anni, perché poi la loro figlia si sarebbe sposata, così mi sarei trovato al punto di partenza. Allora ho lasciato quella casa e ho trovato un appartamento da cinquecentomila lire al mese, che era tantissimo per quei tempi, ma altro non trovavo.
Sono nati dei disaccordi con mia moglie, anche per la nostra giovane età, lei ha deciso di andarsene con i suoi qualche mese per riflettere, portando con sé nostra figlia. Dopo un po’ sono andato giù, l’ho ripresa, sono tornato su e per un po’ siamo andati con ottimo accordo. Ma poi siamo tornati al punto di prima. Il mio lavoro di barman non le piaceva perché stavo fuori fino alle tre di notte, anche di domenica, avevo i miei amici in discoteca, si sa, si conoscono ragazze, e allora andavo in giro con loro anche nelle giornate libere, in cerca di non so cosa. Lì ho incominciato a tirare su qualche spinello, a fare le folli nottate, a sentirmi più libero. Ovviamente la palestra non esisteva più, anche se il maestro continuava a venire a casa a promettermi un mucchio di cose, se solo avessi fatto qualche anno di sacrifici.
Quando ho litigato con un collega il padrone della discoteca mi ha chiamato nel suo ufficio e mi ha ricattato. Mi ha detto che non doveva più succedere, non voleva nemmeno sapere il motivo. Ogni mattina passava il furgoncino a prendere i barman, le guardarobiere e gli altri dipendenti. Io invece preferivo venire con la mia auto, così dormivo mezz’oretta in più. Ora invece il padrone voleva che mi facessi trovare al passaggio del furgone, non voleva più che usassi la mia auto, era ora che ci disciplinassimo un po’, così ha detto. Io non volevo, e lui ha detto che potevo ritenermi licenziato. Io gli ho detto di sì, ma che lui mi facesse trovare tutto pronto, liquidazione e il resto, entro un mese.
Dopo due mesi vedo nel suo ufficio, mi dicono che non c’è ma io avevo visto fuori la sua auto. Uno mi tratteneva, ma io sono entrato di prepotenza e lui c’era. Ero sempre senza lavoro, in merda, avevo fatto solo qualche giornata saltuariamente come manovale, ero nervoso, e lui mi doveva dare almeno tre milioni. Gli ho dato l’ultimatum per la sera dopo, sapevo che ogni sera pendeva almeno cinque o sei milioni d’incasso, altrimenti lo denunciavo al sindacato perché io non ero in regola, non aveva mai versato i contributi. E poi gli bruciavo anche il locale. Lui è rimasto perplesso, ha detto “Ok, domani sera. “ La sera dopo era tutto pronto.
In quel periodo ho avuto un’altra discussione con mia moglie, che è tornata dai suoi. Io ero molto fuori di testa, e ho deciso di entrare di prepotenza nel giro della droga. Vedevo quelli che la vendevano pieni di soldi senza lavorare, soprattutto uno che dava la roba a tutti, sono andato da lui e gli ho chiesto di darmene anche a me perché la vendessi. Lui ha detto di no perché c’erano gli altri, non c’era da mangiare per tutti. Allora l’ho minacciato di trovare la roba da un’altra parte, e lui ha minacciato me di non farlo, perché ci avrei rimesso. Ma io ero deciso, ho preso tre o quattro amici arrabbiati come me, ci siamo procurati la roba da un’altra parte, siamo andati dai “cavalli” di quel boss, e abbiamo proposto loro di comprare d’ora in poi la roba da noi invece che da lui. Loro non volevano, erano terrorizzati, allora noi gli abbiamo portato via tutto, i soldi e la roba. E’ arrivato il boss e ci ha minacciato di morte, ma io ho risposto che il grilletto lo sapevo schiacciare anch’io. Se n’è andato sconcertato, e noi abbiamo cominciato a girare armati e a guardarci le spalle.
Intanto gli avevamo portato via due o tre “cavalli” che hanno cominciato a vendere per noi. Lui ha visto entrare sempre meno soldi, ha chiesto un incontro davanti a un bar. I miei amici erano appostati, ma lui è venuto solo. Mi ha proposto di vendere a tutti i suoi cavalli la roba che mi dava lui, insomma di controllare la piazza per conto suo. Io gli ho detto che la roba la pagavo meno che da lui, non era vero, ma lui ha ceduto, ha detto che voleva vedere dove volevo arrivare. Gli ho risposto che volevo solo vivere.
Tra le vari attività illegali ho scelto la droga perché mi sembrava più facile, più a portata di mano, ormai girava dappertutto. Ma i tossici che vendevano per noi andavano spesso sotto, e i miei amici hanno cominciato a bucare anche loro quasi tutti, per cui dormivano tutto il giorno, non venivano agli appuntamenti. Li ho persi uno per uno, gli ho detto che dovevano smettere di farsi, altrimenti ognuno per conto proprio, se avessero voluto la roba avrebbero dovuto pagarla ma non avremmo più fatto la società.
Intanto stavo solo io dietro i “cavalli”, la polizia mi conosceva a mi teneva d’occhio, mi ha fatto molte perquisizioni. Allora ho deciso di tirarmi indietro, un po’ di soldi in tasca li avevo, e sono andato a riprendermi mia moglie e mia figlia. Avevo sempre in testa solo mia figlia, le compravo bei vestiti e la portavo a sciare. Ultimamente avevo deciso di fare solo più la stagione estiva, in cui i turisti comprano. Avrei così ricavato ancora trenta milioni con cui comprare un negozietto. Non era la vita sana e regolare che avevo sempre desiderato, e poi si aveva a che fare solo con persone sempre fuori di testa.
Un giorno quattro auto della polizia hanno circondato il bar dove stavo giocando a carte. Dopo avermi lasciato finire il caffè mi hanno portato a casa dove hanno buttato tutto all’aria, svegliando anche mia moglie e mai figlia. Non hanno trovato niente, e io ero tranquillo, sorridevo, non pensavo mai più che qualcuno avesse potuto accusarmi. Stavo salutandoli, ma loro hanno detto che dovevo passare un momento in caserma per firmare un figlio. In caserma mi hanno detto che quella notte avrei dovuto dormire lì, e la mattina sarei stato portato in carcere. Ho nominato l’avvocato che mi aveva già difeso due anni prima, ma lui mi ha detto che era già stato nominato da quello che mi aveva accusato, per cui non poteva difendermi perché c’era l’incompatibilità. Quello che avevano trovato con della roba, e aveva dichiarato che gliel’avevo data io l’ho poi rivisto nel carcere di Chiavari, nella sezione dei “pentiti”.
In carcere stavamo in tre in cella senza bagno, se uno stava in piedi gli altri due dovevano stare stesi sulla branda, vedevo i volti diversi da quelli che ricordavo dalle altre carcerazioni, non vedevo più l’amicizia, vedevo la malizia. Non stavo volentieri in compagnia, parlavo poco con gli altri, preferivo starmene solo a pensare ai miei problemi.
Non stavo più bene come le altre volte, volevo uscire, mi sembrava impossibile che qualcuno mi accusasse, credevo che me la sarei cavata in poco tempo. Ma il nuovo avvocato mi ha parlato chiaro, ha detto che rischiavo otto o dieci anni, voleva che confessassi. Io non volevo confessare, anche perché nel frattempo quello aveva ritrattato. Dopo il colloquio con l’avvocato ho avuto un attacco di nervosismo e ho spaccato tutto nella cella. Ho anche preso a pugni gli armadietti, hanno dovuto rifare tutto.
Hanno deciso di farmi una visita psichiatrica, il giudice ha fatto venire un dottore. Io non volevo andarci, poi ci sono andato, è stato gentile, mi ha fatto fare dei giochini, mi ha fatto delle domande sull’infanzia, sui famigliari, ha detto “Mah!” e ha scritto un mucchio di cose. In conclusione però mi ha definito normale, mentre quello che mi aveva accusato era stato definito incapace di intendere e di volere.
Una mattina mi hanno chiamato dicendomi che c’era l’ufficiale giudiziario, mi hanno fatto entrare in una stanzetta dove c’erano quindici guardie, mi hanno detto di stare calmo, che dovevo partire. Il lavorante ha portato la mia roba, tutto alla rinfusa, ammucchiata in una coperta. Io subito detto che non partivo, ma il comandante mi ha detto che sarei andato in un posto più tranquillo, in montagna, e mi ha dato due zaini.
Sono così arrivato a Ivrea, dove mi sono riscritto ai corsi professionali, per pensare ad altro. Dopo il processo, in cui mi hanno dato quattro anni e mezzo, ho chiesto un lavoro e l’ho ottenuto dopo molti mesi. Poi una guardia mi ha chiamato una mattina presto piuttosto bruscamente. Voleva che pulissi la rotonda, ma io non l’avevo mai fatto a quell’ora e mi sono rifiutato. Allora lui ha gridato che se non avevo bisogno di lavorare dovevo lasciare il posto a un altro, e ha versato un secchio d’acqua sul pavimento. E’ arrivato un brigadiere che allontanato la guardia e mi ha chiesto di asciugare il secchio versato, ma senza pulire, sembrava finita lì. Ma la guardia ha fatto rapporto che l’avevo insultato, così mi ha chiamato il direttore, mi ha detto che non lavoravo più e che potevo ritenermi fortunato che non mi faceva denuncia.
Per l’appello sono andato a Genova, nel carcere di Marassi, che faceva schifo. Le celle erano piccole la metà che a Ivrea, e si stava in tre o quattro, a volte anche in cinque. In cella stava il gabinetto, che si poteva usare solo durante le ore di apertura, perché quando uno lo usavano gli altri dovevano uscire. In una sezione stavano sette o ottocento persone, c’erano molti stranieri, si parlavano tutte le lingue.
Tornato a Ivrea, ho riavuto lo stesso lavoro di prima, e al tempo stesso sono stato sorteggiato per la commissione della cucina, cioè ogni mattina scendevo in cucina per controllare che la quantità delle vivande fosse conforme alla legge. Un giorno ho preso per me due carote e due patate perché ne avevo bisogno, che comunque sarebbero state buttate via. La guardia ha fatto rapporto, mi ha di nuovo chiamato il direttore, mi ha detto che non avrei lavorato mai più, e che potevo ritenermi fortunato se non mi faceva la denuncia. Per due messi si sono tutti rifiutati di sostituirmi per solidarietà, la sezione era piena di rifiuti perché nessuno la puliva, ma uno ha dovuto cedere alle insistenze.
Io avevo deciso di tornare sul ring alla mia scarcerazione, ma la palestra del carcere era allagata e inutilizzabile. Allora facevo ginnastica tutti i giorni all’aria senza attrezzi. Un giorno dopo avere fatto ginnastica sono rientrato per vedere un incontro di boxe alla televisione Poco dopo sono entrati nella cella un brigadiere e una decina di guardie dicendo che dovevano tutti rientrare nelle celle. Io ho chiesto il perché, dato che non era ancora l’ora di chiusura. Ma il brigadiere ha detto “Lo sai.” Quando siamo stati tutti chiusi sono arrivati il direttore, il comandante e il dottore. Cella per cella ci hanno fatto tutti spogliare, e allora ho capito che qualcuno doveva essere stato picchiato, perché fanno sempre così per controllare se qualcuno ha dei lividi.
Il controllo ha avuto esito negativo, e allora hanno fatto scendere me e un altro. Ci hanno chiusi separati in due stanzette vicino all’infermeria dove non c’a nulla e si moriva dal freddo. Dopo un po’ il direttore ha convocato lui, poi me. Mi ha ordinato di raccontargli cos’era successo, e io l’ho fatto, nel senso che ero appena rientrato dall’aria quando un brigadiere e una decina di guardie hanno chiuso tutti in cella. Un brigadiere presente mi ha detto di non dire storie, che mi aveva visto lui pulire il sangue per terra. Ma una guardia ha confermato che io ero all’aria quando il fatto è successo, e il direttore ha gridato: “Portatelo via!” Mi hanno chiuso in una stanzetta dove mi sono messo a cantare insieme all’altro chiuso nelle vicinanze. A mezzanotte mi hanno riportato in sezione.
Hanno chiuso in cella tutti noi di quella sezione 24 ore su 24, senz’aria e senza scuola, per dieci giorni, compresi quelli che erano all’aria o al colloquio perché, così hanno detto, erano sicuri di punire anche colpevoli. Ho poi saputo che era stato aggredito il lavorante porta-pacchi, che era finito all’ospedale in gravi condizioni. Avevano subito pensato a me per il mio passato di pugile e all’altro perché una volta aveva litigato con lui. Per scagionarmi la testimonianza della guardia non era bastata, erano andati a chiedere al lavorante all’ospedale se ero stato io. Per tutto il periodo dell’isolamento nessuno di noi ha mai avuto la visita medica.
Con mia moglie ho deciso di farla finita perché dopo tanti litigi è inutile continuare, credo sia meglio per me e per lei, e soprattutto per la bambina. Cerco però di mantenere il contatto, e magari di aiutarla perché lei soffre. Spero solo non prenda brutte decisioni, mi faccio dire nelle lettere tutto ciò che fa. Lei mi risponde, mi dice che appena può viene a trovarmi, cerchiamo di aiutarci l’un l’altra.

su Primo Maggio n.26 – inverno 1986-1987