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IL CONTRABBANDIERE (23 anni)


Io sono nato in uno dei quartieri più poveri di Napoli, eravamo sette maschi e tre femmine, io ero il quart’ultimo dei maschi, nostro padre faceva il pescatore. Ci siamo fatti tutti molti anni di carcere, sempre solo per furti. Per la prima volta a quattordici anni mi hanno preso le guardie accusandomi di oltraggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale e mi hanno portato al Filangieri, il carcere minorile, dopo avermi massacrato di botte.
 L’impressione è stata brutta, piangevo da mattina a sera perché pensavo sempre che volevo uscire. C’erano bravi ragazzi e anche ragazzi che picchiavano gli altri e che si derubavano tra loro. La sorveglianza era dura, la sveglia era alle 8, poi c’era chi andava a scuola, chi in cortile per le lavorazioni, a mezzogiorno due ragazzi battevano dei bicchieri contro delle bottiglie per avvertire che era pronto da mangiare. Mangiavamo in refettorio, tutti dovevamo correre se no rubavano tutto, anche perché ce n’era poco. Rimanevano le mele più brutte, che i ragazzi si tiravano tra loro, era proprio una cosa brutta.
 Dopo due mesi ho avuto la libertà provvisoria, ma non sono andato a casa, mi hanno portato con un furgone in un collegio dove c’erano tutti ragazzi che erano stati al Filangieri o comunque erano cresciuti sulla strada. Erano le solite tarantelle, anche se eravamo più aperti, c’erano gli educatori, vivevamo in appartamentini di setto o otto persone. I primi mesi non potevo uscire, poi ho preso fiducia, dopo due mesi ho potuto andare a casa la domenica e tornare il lunedì. Se la mia famiglia non mi avesse voluto avrei dovuto restare all’istituto fino alla maggiore età, ma invece la camera di consiglio ha permesso che tornassi a casa.
 Il mio è un quartiere malfamato, tutti vivevano sulle sigarette e, non sapendo cosa fare, ho cominciato anch’io ad andare fuori sul motoscafo blu a portare le casse di sigarette dal vapore a terra. I motoscafi dei contrabbandieri sono blu perché così di notte non si vedono, e anche di giorno le motovedette della Finanza riescono a raggiungerli solo se vanno in linea retta, ma se i motoscafi blu fanno le curve non li prendono più perché sono più maneggevoli. Andavamo dove si vedono solo mare e cielo, una volta abbiamo avvistato un’enorme massa scura ed era una balena, altre volte vedevamo passare gli aerei da guerra americani. Capitava che il vapore si spostava e non riuscivamo a trovarlo, e gli aerei americani che dall’alto lo vedevano capivano che noi lo cercavamo e ce lo segnalavano.
 A terra centinaia di ragazzi caricavano sulle auto le casse di sigarette e le portavano da persone, tipo operai, che le tenevano per mille lire a cassa. Ogni quartiere aveva, diciamo, quattro motoscafi e trenta ragazzi per il trasporto. Ogni motoscafo dava duemila lire per ogni cassa scaricata, cento casse fanno duecentomila lire che i ragazzi dovevano spartirsi tra loro. E’ andata avanti così per parecchi anni, eravamo tutti ragazzi che non erano andati a scuola e non avevano trovato lavoro. Verso il ’79-’80 c’erano duecentocinquanta motoscafi blu, poi la Finanza ha avuto motoscafi più veloci, o ha avuto ordini da Roma, non so, fatto sta che ha distrutto tutto. Allora i ragazzi che facevano il contrabbando si sono messi a rubare.
 Gli anni ’80 sono stati gli anni della camorra, come la chiamano loro, che erano poi tutti ragazzi che prima avevano fatto il contrabbando. Mio padre è morto, a casa non c’era da mangiare e abbiamo dovuto fare qualche furto. Una notte io e un altro poveraccio di 40 anni con tre figli, un terremotato che dormiva nei container, abbiamo rubato del caffè da un treno. Le guardie ci hanno sorpreso sul posto mentre stavamo rubando, hanno sparato decine e decine di colpi di pistola e ci hanno arrestati. Poi in tribunale si sono giustificati dicendo che avevamo sparato su di loro e non era vero, tutta Napoli sapeva che noi rubavamo senza usare armi. Non si è potuta fare la perizia balistica perché loro dicevano che i nostri colpi erano finiti in mare. Così siamo stati condannati per rapina, e sono andato a Poggioreale a sette anni dalla prima carcerazione.
 Era una cosa tremenda, erano gli anni della camorra, anni brutti, perché se in un quartiere c’era un boss nemico di un certo clan, e c’era uno di quel quartiere neutrale, quel clan ce l’aveva con lui solo perché era dello stesso quartiere. Stavamo in diciassette in celle da quattro o cinque persone, ma come trattamento non stavamo male perché allora comandavano i detenuti. Due mesi dopo sono andato a Brindisi in treno incatenato. Ho fatto il transito di due notti a Bari, ero mortificato, piangevo sempre.
A Brindisi sono stato blindato nel reparto osservazione una decina di giorni, poi sono andato in sezione, non conoscevo nessuno e mi disperavo. Poi ho fatto il colloquio con mia madre e mio fratello più grande, piangevamo tutti e tre. Mi hanno sempre voluto bene perché sapevano che non ho mai fatto male a nessuno. Sanno che sono un po’ nervoso, e allora hanno sempre cercato di starmi vicino.
Sono poi tornato a Poggioreale per l’appello, sempre facendo transito a Bari, dove ho visto cose orribili. I napoletani della provincia avevano detto ai baresi di picchiare tutti i napoletani del centro che passavano per Bari, e i baresi eseguivano.
A Poggioreale ho visto cinquanta guardie entrare in sezione con i cappucci in testa e in mano i fucili a pompa, volevano “aggiustare il carcere” e hanno sparato migliaia di botti addosso a tutti quanti, e tutti sono corsi nelle celle. Il giorno dopo tutte le celle erano chiuse, avevano applicato l’art. 90. Il giorno dopo ancora hanno sparato qualcosa come quindici o ventimila colpi di pistola da fuori dentro i padiglioni, hanno gettato dei lacrimogeni  mentre eravamo tutti chiusi. Alla sera sono passati cella per cella con caschi, cani e fucili e ci hanno rotto le ossa a tutti quanti. Poi ci hanno portato a Poggioreale antica, nei sotterranei dove mettevano i prigionieri cinquanta anni fa. Ci siamo stati per otto giorni in centinaia, dormendo per terra.
Poi siamo risaliti ognuno nella propria cella, dove però non esisteva più niente, avevano rubato tutto, vestiti, letti, tutto. C’erano solo più le celle con i muri rotti. Io stavo tutto manganellato, per quindici giorni sono stato chiuso dentro, le guardie da fuori ci dicevano parole, non uscivamo mai all’aria. I colloqui non esistevano più. Le famiglie fuori volevano avere nostre notizie, e loro hanno caricato anche le famiglie. Io stavo solo in mutande, un amico mi ha trovato un pigiama sporco di sangue, e con quello sono partito in blindato per Bari, non sono mai stato tanto male.
Qualche mese dopo sono andato a Carinola, un carcere della Campania di quattrocento persone, erano celle singole, si stava sempre chiusi. Volevo partire perché non stavo bene, c’era brutta gente. Così sono andato a Marsala, in Sicilia, un carcere di cinquanta persone, dove sono stato quasi un anno, era tranquillo, sono stato piuttosto bene. Poi però si è trovato affollato e per lo sfollamento mi hanno mandato a Trapani.
Mente ero lì hanno fatto una grande operazione di polizia a Napoli e mi hanno notificato il mandato di cattura per l’art. 416 bis, l’associazione a delinquere di tipo camorristico, di cui io non ho mai avuto idea in vita mia, perché un “pentito” aveva fatto il mio nome. Mi disperavo, volevo uccidermi, facevo il colloquio più raramente.
Ho poi chiesto e ottenuto il trasferimento a Orvieto, perché lì c’era mio fratello, che così ho potuto rivedere dopo due anni e mezzo. Ci sono stato otto mesi, c’erano centotrenta detenuti, stavo bene finché dopo qualche mese sono arrivate delle cattive persone e ho dovuto litigare con le mani. In quattro anni avrò litigato sessanta o settanta volte.
La sera del 26 dicembre, mentre mangiavo, sono entrate in cella dieci guardie, mi hanno afferrato e portato all’isolamento. La cella era brutta, c’era uno squallido tavolaccio, sono stato senza mangiare, senza niente, sentivo gli altri sopra che festeggiavano il Natale e mi dannavo il cuore. Alle sei di mattina i carabinieri mi hanno messo i ferri per partire, ho chiesto dove dovevo andare, mi hanno detto Ivrea e io non sapevo nemmeno dove si trovasse.
Sono arrivato a Ivrea alle 7 di sera, in matricola mi hanno preso i dati e mi hanno messo al transito, nel cameroncino. Stavolta ho proprio tentato di uccidermi, ero troppo stanco di tutto quello che avevo passato, non avevo fatto male a nessuno. Ho preso cinque roipnol, mi sono tagliato i polsi e mi sono messo a letto sotto le coperte, mezz’ora dopo sono arrivate le guardie e mi hanno portato all’ospedale. Al ritorno mi hanno messo all’osservazione per guardarmi a vista, poi sono salito in sezione.
Mi hanno fatto il processo per il 416 bis dove non ho capito niente, parlavano di grandi personaggi della camorra che io non avevo mai conosciuto. Mi hanno dato quattro anni, ma con gli arresti domiciliari, per cui tra un mese finisco la pena, quello che ho passato non lo auguro a nessuno.

su Primo Maggio n.26 – inverno 1986-1987