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Quando si parla del ’77 la mente corre a scontri di piazza, fumo di lacrimogeni, manifestanti che lanciano molotov, allegri girotondi in piazza, murales multicolori, volti dipinti, joint e chitarre intorno ai falò notturni nei Circoli del Proletariato Giovanile. La lotta e la festa. Se lo sguardo si spinge più indietro, ecco apparire immagini in bianco e nero: la strage di stato, le scuole–quadri, i servizi d’ordine, i volantini che escono dal ciclostile, i tazebao, le riunioni piene di fumo di sigarette, e in sottofondo la musica degli Intillimani. Quando poi si parla del ruolo svolto da Autonomia operaia, due interpretazioni sono state avanzate negli anni successivi in modo quasi esclusivo. La prima interpretazione la vede come la punta più avanzata e radicale del movimento del ’77. La seconda, al contrario, l’accusa di averlo distrutto con la sua pratica violenta e da organizzazione separata. Ad esempio, i conti non tornano se si ricorda che gli scontri più violenti sono avvenuti a Bologna, il centro dell’ala creativa del movimento del ’77. Si tratta evidentemente di immagini parziali che lasciano irrisolti molti problemi politici e storici.
 I frammenti e le riflessioni che seguono sono quello che dichiarano già nel titolo e non pretendono di essere altro: una ricostruzione storica sarebbe stata molto più coerente e documentata (ce ne sono di ottime). Esse nascono dall’insoddisfazione (per non dire irritazione) provata ogni volta che si parla dei due grandi movimenti del ’68 e del ’77 come se nel periodo intermedio non fosse accaduto nulla, oppure ci fosse stata una crescita lineare e uniforme, ignorando contraddizioni, brusche svolte e false partenze, con la sgradevole impressione che gli esiti fossero scontati fin dall’inizio. Quindi in questi frammenti si considerano noti i principali eventi e di essi si riferiscono solo quelli indispensabili a chiarire il contesto, sperando di non avere commesso troppe imprecisioni.
 Si parlerà poco delle linee e delle ideologie e si concentrerà l’attenzione sui modelli organizzativi e sui comportamenti pratici, ovvero sulla differenza tra cosa si diceva e cosa si faceva. In questo modo si vedrà che organizzazioni e gruppi anche lontani dal punto di vista soggettivo (operaisti, marxisti-leninisti ecc.) erano in realtà vicini dal punto di vista pratico e viceversa, e che spesso le differenze soggettive si riducevano alla terminologia.
 Molte cose si capiscono meglio se, tanto per cominciare, si ristabilisce la differenza tra movimento rivoluzionario e movimenti di lotta. Il movimento rivoluzionario è l’insieme dei gruppi organizzati più o meno collegati e intrecciati (o polemizzanti tra loro), singoli, pubblicazioni, radio, unificato da una cultura (con molte varianti e sfumature), uno stile di vita, una scala di valori, libri che si leggono, musica che si ascolta e gergo che si parla. La rivoluzione è il ribaltamento di tutti gli assetti e i rapporti sociali, economici, giuridici e legislativi (in quest’epoca il capitalismo), e non può essere ridotta alla caduta di un governo, all’approvazione di una legge o alla conclusione di un contratto.
I movimenti di lotta sono invece l’espressione di settori di proletariato che si oppongono a una particolare situazione di sfruttamento e oppressione o che vogliono conquistare uno o più obiettivi circoscritti e concreti, indipendentemente dalle culture e dai progetti che muovono i singoli soggetti che vi partecipano. Per loro natura i movimenti di lotta sono eterogenei e ciclici. Il movimento rivoluzionario è alimentato dai movimenti di lotta e i rivoluzionari possono partecipare a essi, ma non sono la stessa cosa e i loro tempi non coincidono. Per un periodo più o meno lungo la visibilità sociale del movimento rivoluzionario (numero dei militanti e delle sedi, volume di iniziativa, produzione letteraria) può occultare la crisi e il declino dei movimenti di lotta.
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