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PSICOTERAPIA


Ferdinando deglutì. Sentì il sudore freddo appiccicargli il pigiama di lino alla pelle, sotto il lenzuolo del grande letto di ottone anticato. Già in altri casi, al risveglio mattutino nel suo attico, aveva avuto qualche sospetto. Un oggetto che non era dove lo aveva lasciato, la sera precedente (la notte, per essere più esatti, perché raramente andava a dormire molto presto), come quella  volta che una delle sculture non era più sulla mensola, ma l’aveva trovata sullo sgabello del bagno, e quell’altra che il Monet no era più appeso alla parete, ma era appoggiato capovolto dietro alla poltrona.
 Ogni volta aveva attribuito quegli episodi allo stato di alterazione in cui si era trovato al momento di addormentarsi (gradiva in modo particolare il Johnnie Walker e, di tanto in tanto, una striscia di coca), oppure allo scherzo di dubbio gusto di una delle tipe che aveva rimorchiato e che aveva passato la notte nell’attico, andandosene mentre lui ancora dormiva. E non ci aveva pensato più.
 Ma ora la cosa era molto grave, pensò Ferdinando mentre, ancora seduto sul letto, lasciava vagare lo sguardo alle pareti della camera, che era poi la stanza più grande. Quei mure era coperti da scritte gigantesche di colore nero, e il tenore di quelle scritte era quanto mai esplicito e chiaro:

MUORI BASTARDO
TI AMMAZZO PORCO
FAI SCHIFO
 SEI UN PEZZO DI MERDA
PAGHERAI PER TUTTO

Queste erano le scritte meno malevole, ma tutte emanavano odio e rabbia sconfinati, impazienti di tradursi in atti concreti, in morte e distruzione. I tratti ondulati, come se la mano che li avea tracciati avesse tremato, ma forse l’autore li aveva voluti proprio così, per conferire loro un aspetto ancora più innaturale e minaccioso.
 Lo strumento era stato un pennarello che ora giaceva sul pavimento e che, fino al giorno prima, era stato chiuso in un cassetto insieme a piccoli attrezzi quali un paio i forbici, una pila elettrica, una confezione di fermagli, un rotolo di nastro adesivo e simili.
 Ferdinando tese l’orecchio, ma non udì alcun suono,  parte il ticchettio della sveglia e il proprio cuore che aveva accelerato i battiti. Oltre la letto, nella camera si trovavano il grande guardaroba di masso incassato nel muro, l’impianto stereo, la raccolta di dischi di musica classica, e alla parete il Monet, il Degas e il Dalì. Riproduzioni naturalmente, ma facevano ugualmente il loro effetto su chi entrava. Denotavano il buon gusto che lui, onestamente, riteneva di possedere.
 Il Tv color collegato all’antenna satellitare si trovava fissato a una staffa proprio sotto il soffitto, in modo da potere essere guardato m comodamente dal letto. Una epsoitote di legno laccato ospitava le videocassette, la maggior parte porno, ma raffinate. Sulla mensola era allineate le sculture africane e asiatiche, autentiche, comprate durante i  suoi viaggi in Kenya, Madagascar, Egitto e Sry Lanka. Il pavimento era coperto da una calada e morbidna moquette, da modo da potersi muovere agevolmente a piedi nudi.
 La cucina era piccola ma più che sufficiente per lui che cenava quasi sempre al ristorante, separata dalla camera da letto. Fornello, frigo-bar e forno a micro-onde, una cucina adatta giusto per gli spuntini serali Poi c’era il bagno, quello sì molto grande, bello e superaccessoriato. Niente lavatrice, lui portava tutto in tintoria.
Ferdinando scostò il lenzuolo, posò i piedi sulla moquette, si alzò e spostò cautamente la tenda della cucina, ma non vide nessuno, come era naturale che fosse. Nessuno nemmeno nel bagno. Arrivò alla porta blindata dell’ingresso, appoggiò la mano sul maniglia e tirò. La maniglia resistette alla pressione, ma lui aveva già visto che la serratura era chiusa e la chiave al suo posto, così come la porta finestra che da sul terrazzo era come l’aveva lasciata.
 Il colpevole era lui. Una crisi di sonnambulismo. Che poteva non significare nulla, come poteva essere un sintomo di qualche più grave psicosi. Nessuno meglio di lui poteva diagnosticarlo, perché Ferdinando Culicchia era uno psichiatra.
 In quel momento ricopriva la carica di direttore della clinica privata “Aurora d’argento” (le due A del logo spiccavano sull’insegna, sulla carta intestata e sui cartellini dei dipendenti), proprietà di una finanziaria. La casa di cura occupava una austero ed elegante palazzo immerso in un grande parco e ospitava alienati e ritardati mentali di famiglie benestanti e di un certo livello, disposte a pagare una retta di cinque milioni al mese più le spese.
 La cifra era comprensiva della discrezione: negli affari e nella politica non era opportuno che si sapesse che ila made o il fratello e il figlio mangiava mosche e ragni o sosteneva di essere posseduta dal diavolo o di essere in contatto telepatico con gli extraterrestri. I trentadue pazienti ospitati in quel periodo nella clinica era alloggiati in comode camere singole e assistiti da otto infermieri professionali, tre psichiatri e un medico generico. Completava il personale due impiegate amministrative, quattro addetti alle pulizie e cinque alla sicurezza.
 Ferdinando non era sposato. Abitava in quell’attico da tre anni, se l’era accaparrato per centocinquanta milioni, il suo conto in banca (anzi, i suoi conti in banca, perché aveva prudentemente suddiviso il suo patrimonio in u due due istituti italiani e un altro all’estero, non si poteva mai sapere) ammontava a oltre un miliardo, la maggior parte investi in Bot e Cct.
 Del resto, dopo i lunghi anni di specializzazione in psichiatria, il pesante tirocinio al Centro di Salute Mentale e al reparto neuropsichiatrico dell’ospedale pubblico, con un occhio sui libri e l’altro per cogliere al volo le buone occasioni per inserirsi nelle alleanze giuste, tutto questo se l’era ben meritato, o no?
 Al punto in cui era arrivato, la sua fatica maggiore era scovare qualche desiderio ancora insoddisfatto. Oltre ai viaggi, agli abiti eleganti e alle buone cene, su quel letto aveva avuto amplessi che la maggior parte degli uomini si sognavano, come quelli con Simona, la pittrice, conosciuta a una matinèe, che cambiava colore di capelli quasi una volta al mese, e quelli con Clotilde la bibliotecaria, conosciuta in Madagascar, taciturna e abitudinaria sul lavoro quanto focosa e fantasiosa a letto.
 Della professione e dei pazienti non era mai riuscito ad appassionarsi più dello stretto necessario; per dirla tutta, non gliene importava praticamente nulla. Aveva sempre evitato la trappola in cui cadevano i colleghi giovani ed entusiasti, che consideravano la psichiatria quai una missione, si affezionavano ai picchiatelli (cosa ci  trovassero, lo sapevano solo loro), ci perdevano il sonno e facevano una malattia di ogni fallimento. Malattia in senso letterale, perché poi dovevano staccare alcune settimane a causa dell’esaurimento nervoso.
 Lui no. Lui rimaneva nei imiti dell’indispensabile e del credibile agli occhi dei profani, senza minimamente preoccuparsi dei risultati. Sapeva di non correre i rischi dei suoi colleghi di altre discipline, come cause penali o civili. La malattia mentale è ancora abbastanza misteriosa o impalpabile, per cui tutte le opinioni restano lecite. Non è ancora nemmeno chiara la distinzione tra causa e sintomo, sulla prevalenza del fattore organico o su quello ambientale o genetico (ogni tanto qualcuno crede di avere scoperto il gene della schizofrenia o della depressione). Nella psichiatria gli errori diagnostici e terapeutici non si vedono al microscopio e non si possono radiografare. Tanto meno si possono portare in tribunale.
  Ferdinando finì di radersi e cominciò a passarsi il gel sui capelli biondi, ancora folti e lucenti. Il suo volto non era certo più quello dell’atletico studente di molti anni prima, ma forse era anche meglio; le poche rughe gli conferivano quell’aria vissuta che alle donne sembrava piacere. I pettorali e gli addominali erano ancora duri e scattanti. Avrebbe preferito essere alto qualche centimetro in più. Ma bastava non andare troppo vicino agli altri perché non saltasse all’occhio
 Scelse una camicia di popeline, un paio di pantaloni di gabardine e una paio di mocassini di cuoio traspirante. L’ascensore lo portò al garage seminterrato, dove bussò alla guardiola del custode. Quella mattina c’era Giacomo, che si alternava con il figlio Mimmo.
 “Ueilà, capitan Giacomo, tutto bene in trincea, nessun tentativo di invasione notturna?”
 Giacomo posò la rivista, si alzò e, sorridendo, uscì dalla guardiola. Era alto e, nonostante l’età, solo leggermente curvo, aveva un paio di folti baffi bianchi e una grossa testa ormai quasi completamente calva. “Tutto bene, professore. Le auto di questa casa sono al sicuro.”
 Poi aggiunse sottovoce: “Hai forse visto per quel posto per Stefano, anche nelle pulizie?” Stefano era il figlio minore di Giacomo, che l’anno prima ava finito l’istituto professione ed era disoccupato.
  Ferdinando sorrise e strinse la mano sulla spalla del custode. “E’ un brutto momento, Giacomo, ma vai tranquillo, appena si libera un posto, Stefano è il primo. Se te lo dico io...”
  Ferdinando dispensò all’uomo ai baffi bianchi una rassicurante pacca sulla schiena, quindi raggiunse l’Alfa Romeo Gtv biposto blu, strofinò via una macchiolina di sporco dall’alettone, entrò, mise in modo e imboccò la rampa dell’uscita. Quando fu in mezzo al traffico premette il pulsante per alzare l’antenna e, come faceva sempre, accese la radio per sentire il notiziario. Ma quella mattina non era proprio in vena, e poco dopo girò la manopola, finché non trovò un canale che trasmetteva musica.
 Non successe nulla di anormale per un mese. Poi una mattina  Ferdinando si svegliò in un mare di cocci e rottami. Cocci di legno, di vetro, di plastica, anche sulle lenzuola che erano lacerate. Sedette di scatto sul letto di ottone anticato, respirando affannosamente, e si si guardò intorno. Sfasciata la poltrona, sfondato lo stereo, sparsi dappertutto  pezzi delle sculture africane e asiatiche e di dischi di musica classica, strappati il Monet, il Degas e il Dalì. Le cornici vuote erano rimaste appese, storte, al muro, ancora imbrattato di scritte. Si era salvato il televisore solo perché era lassù in alto, ma i nastri attorcigliati, quasi stritolati, fuoriuscivano dai supporti delle videocassette ed erano sparsi per tutta la stanza.
 Lottando contro il panico, Ferdinando controllò il bagno, la cucina, la porta d’ingresso e quella del terrazzo, cercando di non badare allo scricchiolio sotto i piedi, e di nuovo dovette arrendersi all’evidenza. Nessuno era entrato nell’appartamento mentre lui dormiva. Ma la cosa, in fin dei conti, era irrilevante. Se anche qualcuno particolarmente abile fosse riuscito a entrare, non avrebbe mai potuto provocare quel macello senza svegliarlo. Il colpevole di quel macello poteva essere solo lui.
 Telefonò alla clinica per dire che, quel giorno, facessero senza di lui. Doveva riflettere. A poco a poco cominciava a ricordare. Ricordava se stesso bambino che, nel cuore della notte, si svegliava e si ritrovava in piedi in cucina, o addirittura sul balcone della casa di periferia. E sua madre che lo abbracciava e gli diceva che il sonnambulismo non era una cosa grave.
 Il ricordo ne richiamò altri. Per alcuni lunghi attimi si ritrovò in una grande cucina con una grande credenza, sulla credenza una grande radio, e poi un tavolo con il ripiano di marmo dove, oltre che mangiare, si giocava a carte, si scriveva, si facevano i conti e tutto il resto. Su quel tavolo lui aveva fatto i compiti e studiato dalle elementari fino al liceo scientifico. Poi c’era un televisore in bianco e nero e un telefono.
 Dopo i quattordici anni non era più successo. Non aveva più camminato nel sonno, e se ne era completamente dimenticato. Non né aveva mai più avuto il minimo sospetto di altri episodi di sonnambulismo, nessuno gli ava mai più detto qualcosa di simile, nemmeno dopo che i suoi genitori non c’erano più e viveva per conto suo da molto e tempo. Ma il professore Culicchia sapeva che, spesso, un certo comportamento infantile che sembra scomparsi può ricomparire molti anni dopo.
 Sonnambulismo: offuscamento o abolizione completa della coscienza... Gli occhi del sonnambulo sono aperti e fissano con pupille miotiche... Durata variabile: fino alla ripresa del sonno normale.
 Ma ormai non era più sonnambulismo. Se era stato capace di fare tutta quella rovina senza conservarne il minimo ricordo, significava che poteva fare anche qualcosa di tremendo, di irreparabile, anche fuori di lì. Poteva anche averlo già fatto. La sua competenza professionale gli precludeva le spiegazioni tranquillizzanti. Era affetto da una grave sindrome di dissociazione psicotica.
 Si osserva in età infantile, più frequente nelle femmine... In età adulta si accompagna a stati patologici quali isterismo, epilessia eccetera... Cura farmacologica o intervento sulle cause...
 Intervento sulle cause, figurarsi, se si fosse sottoposto a una Tac o a una risonanza magnetica si sarebbe saputo, e questo non doveva succedere. Nessuna doveva saperlo, non poteva dirlo a nessuno, non poteva chiedere aiuto a nessuno.
 Non certo a Sergio Garrimenti, a cui aveva soffiato il posto, già sicuro, di direttore dell’”Aurora d’Argento”. Per non parlare di Luigi Pergameno, suo compagno all’università, con i cui appunti aveva scritto e pubblicato un libro senza nemmeno citarlo e senza dargli una lira. E nemmeno a Emilio Bonafede, vicedirettore della clinica, di cui cui si era portato a letto la moglie.
  Doveva fare da solo. Dove applicare su di sé le proprie nozioni. Sarebbe stato il paziente di se stesso. L’unico paziente di cui gli sarebbe importato qualcosa e per cui avrebbe fatto tutto il possibile.  Ferdinando passò alcune notti e rileggere testi e dispense. Alcuni erano in uno scatolone in cantina, altri li aveva trovati nella biblioteca della clinica. Tornò a concetti come ipnofrenosi, disarmonia affettiva, proiezione e delirio, organizzazione della libido. Formulò un’ipotesi e su quella cominciò a lavorare.
 “Porco”, “Fai schifo”, “Devi morire”. Le scritte indicavano una pulsione di morte che, a sua volta, rivelava un senso di colpa inconscio. Una parte di lui lo accusava di una grava colpa. Doveva trovare il “punto di conflitto”, l’episodio della sua vita che aveva innescato il decorso patologico.
 Ma da molto tempo non aveva conflitti, era del tutto in pace con la sua coscienza, era arrivato esattamente doveva voleva arrivare e aveva esattamente ciò che voleva arrivare. Avrebbe forse dovuto rinunciare qualche possibilità dio piacere per non fare torto a qualcuno? Ma non scherziamo. Nessuno senso di colpa, nessun rimorso.
 Però... c’era stata Iene.
 Era l’epoca in cui lavorava al Centro di Salute mentale. Irene aveva ventuno anni, era alta e bella, aveva grandi occhi verdi e lunghissimi capelli neri. Ed era affetta da una grae forma di psicosi maniaco-depressiva. I primi sintomi si era a manifestati due anni prima, dopo la morte del fratellino Luca. Irene aveva cominciato a rifiutarsi di vedere tutti e poi di uscire di casa, e in seguito era peggiorata: era arrivata a piangere per un nonnulla, si svegliava urlando in preda agli incubi, e infine aveva smesso di uscire anche dalla sua camera e quasi non parlava più.
 I genitori, entrambi operai, in un primo tempo avevano attribuito questo comportamento alla morte di Luca, che aveva straziato anche loro, ma poi si erano accorti che i problemi della figlia duravano troppo. Al Centro di Salute Mentale avevano loro consigliato un ciclo di psicoterapia e avevano loro indicato Ferdinando. Lui era bravo, serio, simpatico, parlava bene e metteva a proprio agio le persone.
 E Irene si era innamorata di Ferdinando.
 Era del tutto normale che una paziente si infatuasse dello psicoterapeuta, ma lui ne aveva approfittato, immediatamente e consapevolmente.
 Le aveva detto che l’amava, che avrebbero vissuto insieme, e l’aveva porta a letto nella casa d’affitto dove abitava allora. L’avea affascinata mostrando quando lui fosse intelligente, quante cose sapesse, quanti sacrifici aveva dovuto affrontare per studiare, e tutto solo per il bene degli altri. Conoscenza abbastanza il funzionamento della mente umana, soprattutto di quelle tormentare e sofferenti, per sapere quali parole e gesti usare, quando e ove.
 Approfittato? Una certa attrazione l’aveva provata anche lui, non solo sul piano fisico. Dopo lo stress del lavoro, delle manovre per scavalcare e non lasciarsi scavalcare, Irene era il proto, il rifugio, non solo fisico ma anche mentale. E poi c’era anche qualcos’altro.
 Fino a quel momento, per lui, con le donne era stato facile, molto facile. Ma quali donne? Donne per le quali lui era l’uomo di successo, bravo a letto e con i soldi, donne che non volevano da lui nulla di più di ciò che lui voleva da loro: giovani colleghe in carriera, moglie di colleghi in cerca di distrazione, o sconosciute rimorchiate per una notte. E questo gli aveva insinuato il fastidioso sospetto che lui fosse capace i interessare solo donne del genere. Non che gli dispiacesse, sia ben chiaro, ma a lungo andare il vuoto cominciava a farsi sentire.
 Ma Irene non era come quelle donne, in lui aveva visto qualcosa di bello e di buono. E non poteva essere solo a causa della malattia, qualcosa di bello e di buono in lui doveva pure esserci. Anche a letto era diverso. La lieve goffaggine di lei, dopo tante amanti consumate, lo eccitava ancora di più e gli comunicava un senso di tenerezza e intimità. A lei piacevano la musica celtica e provenzale, gli scrittori irlandesi e scozzesi. Ferdinando si stupì di come gli tornassero in mente tanti particolari minuti che, a quel tempo, gli erano apparsi insignificanti. I genitori di Irene avevano visto la loro figliola sorridere di nuovo dopo quasi tre anni e ne avevano tratto la conclusione di avere compiuto la scelta giusta, Quel giovane medico era davvero bravo come dicevano, ed erano stati molto sollevati quando lui li aveva informati della sua disponibilità a seguirla ancora per un po’, in quella patologia le ricadute erano sempre possibile.
 Poi Ferdinando si era stufato, non aveva più tempo, aveva altro per la testa. Ciò che prima era intimità e tenerezza era diventato stucchevole, e ciò che era riposante e rilassante era diventato risaputo, i momenti d’amore erano diventati prevedibili, le conversazioni giravano a vuoto, le parole ronzavano nella stanza come calabroni. E allora aveva detto a Irene e ai genitori che lei era era guarita e che non aveva più bisogno di lui.
 Irene l’aveva cercato, ma lui una volta si era faceva negare la telefono, un’altra non aveva tempo e un’altra ancora non era dell’umore giusto per discutere. Infine le aveva detto chiaro e tondo che lei aveva capito male, che lui non aveva mai parlato di amore eterno, che l’infatuazione certo faceva parte della malattia ed era ora che lei ora se ne liberasse.
 Lei l’aveva presa male, molto male. Aveva pianto e urlato, proprio le cosa che lui non aveva mai sopportato. Non riusciva a crederci, con tutte le altre non c’erano mai stati rimpianti né recriminazioni, al massimo c’era voluto un regalino, alla peggio un assegnetto.
 Irene aveva detto che si sarebbe uccisa e, e lui aveva risposto che non accettava ricatti. L’aveva messa alla porta dicendole che, se si fosse fatta rivedere o risentire, lui le avrebbe ordinato un bel trattamento sanitario obbligatorio in un reparto neuropsichiatrico.
 Ferdinando guardò il numero civico e il nome sul citofono. Non era stato facile trovarla, ma c’era riuscito. Oramai Irene abitava per conto suo. Attraversò il piccolo cortile dove si trovavano una bicicletta e un motorino, passò accanto alle cassette della posta, quelle di vecchio tipo, salì la scala con la ringhiera di ferro e arrivò davanti alla porta.
 I capelli erano sempre neri, ma non erano più lunghissimi, bensì raccolti in un’acconciatura più sobria. Indossava un golf, una camicetta e una gonna chiara. Il suo volto era sempre bello, anche se la pelle era un po’ tirata, e non tradiva nessuna emozione. I grandi occhi verso erano attenti e tranquilli. Si fece da parte per permettergli di entrare.
 Ferdinando si ritrovò in una cucina piccola e pulita. I pensili bianchi sovrastavano il frigo e la lavatrice. Su una mensola, accanto ai barattoli, erano allineati alcuni libri di cui non riuscì a distinguere i titoli. Lei gli indicò una delle sedie accanto al tavolo e, quando lui si fu seduto, sedete anche lei. Con un cenno della testa lo invitò a parlare.
 Ferdinando non si era mai sentito tanto a disagio dall’epoca degli esami universitari. Avvertiva la bocca impastata e un nodo allo stomaco. “Ecco... Proprio in questi giorni ho pensato a te... Volevo vedere come te la passavi... come ti senti...”
 “Lo volevi sapere come medico?” chiese lei, velocemente e freddamente. Teneva le braccia incrociate e lo fissava.
 “Non... non so... lo volevo sapere così...”
 “Abito qui, pago l’affitto, dò lezioni di musica, ho una Fiat Panda di seconda mano, ogni tanto vado in bicicletta e la cinema, tiro avanti. Vuoi sapere altro?”
 Ferdinando si disse che doveva farlo. Se non l’avesse fatto, sarebbe stato tutto inutile. Compresa la fatica di andare lì e affrontare quel dialogo. Se non eliminava il “punto di conflitto”, la sua sindrome sarebbe continuata e si sarebbe aggravata, e le conseguenze sarebbero state disastrose.
 “Sì, c’è altro. Ho pensato spesso a te, mi sono reso conto di essermi comportato male, molto male, e allora...”
 “Ah, ti sei comportato male?”
 “Sì, lo ammetto. Non è vero che tu avvi frainteso.” si  fermò passandosi una mano tra i capelli, e si accorse che stava sudando. “Ti avevo volutamente ingannata, approfittando della tua condizione, per... per... per...”
 “Per portarmi a letto?”
 “Sono venuto a chiederti di perdonarmi.”
 Irene si alzò, fece alcuni passi nella cucina con le mani dietro la schiena. Poi si fermo di fronte a Ferdinando che, per guardarla, fu costretto ad alzare la testa.
 “Dopo l’ultima volta che ci siamo visti, io ho tentato tre volte il suicidio. La terza volta mi hanno salvata all’ultimo secondo. Mi domandavo sempre se davvero avevo frainteso perché ero malata. Per molti mesi ho dormito quasi ininterrottamente, sotto l’effetto di psicofarmaci. Le poche ore che ero sveglia, odiavo tutto e volevo rompere tutto. Ho rovinato la vita ai miei genitori e ho perso gli ultimi amici che avevo. Poi ho dovuto fare una cura di disintossicazione dagli psicofarmaci. Prozac, Seroxat, Efexor, Remeron, ti dicono qualcosa questi nomi? E ora tu mi dici che, invece, avevo capito benissimo.
 “Ti ho chiesto di perdonarti.”
 “Certo, certo, ho capito. Se ti dico che ti perdono, tu te ne vai di qui tranquillo e soddisfatto.”
 “Mio Dio! Io non... non volevo! Non sapevo!”
 “Ora lo sai. Te l’ho detto per farti capire che io non voglio che tu,a desso, sia tranquillo e soddisfatto. Non posso e non voglio nemmeno più pensare a te e, da qualche mese ormai, ci  riesco abbastanza bene. A non chiedermi di fare qualcosa per te. Non chiedermi di dirti qualcosa per farti stare tranquillo e soddisfatto.”
 Irene aprì la porta e rimase immobile, con la mano sulla maniglia. “E ora, se non ti dispiace, aspetto un allievo. Non mi ha fatto piacere rivederti e spero che non accada più.”
 Quella notte Ferdinando non dormì. Per molto tempo era stato disteso, fissando il televisore acceso, sulla staffa lassù sotto il soffitto, seguendo il susseguirsi degli spot, dei telefilm e delle televendite senza ascoltare, premendo ogni tanto un tasto a caso del telecomando. Poi era sto troppo nervoso anche per guardare e allora si era alzato, si era avvolto nella vestaglia, era uscito sul terrazzo, ed era rimasto a lungo a osservare la città oramai buia e silenziosa. Aveva sgombrato tutti i cocci e i rottami. Le scritte erano ancora sulle pareti, avrebbe pensato anche a quelle.
 Come si premetteva quella stronza di parargli in quel modo? Di trattarlo come un bambino cattivo? Chi si credeva di essere?
 Mica l’0avva ammazzata, dopotutto. Era fuori di testa e ora stava bene, lavorava persino, cosa voleva di più dalla vita? Non lo sapeva che c’era gente che era rimasta in manicomio trenta o quarant’anni? Le era andata ancora bene, lui avrebbe avuto il potere di farle fare la stessa fine.
 Le aveva provocato una delusione, un’atroce delusione, e allora? Le delusioni fanno parte della vita, lui l’aveva rafforzata, l’aveva aiutata a tonare nel mondo reale più forte di prima. Cosa le diceva che non era stata proprio la storia con lui a guarirla?
 Forse lui l’aveva fatta con quello scopo, siano d’accordo, ma il risultato era stato quello. E allora perché, dopo tanti anni, conservare rancore, prenderlo a pesci in faccia?
 “Non te la pendere, è tutto passato, non ci pensare più, in fondo è stato bello finché è durato.” Ci voleva tanto? E invece no.
 Il giorno successivo Ferdinando trattò male tutti, collaboratori e pazienti, e sbatté giù il telefono a Simona la pittrice che insisteva per vederlo. “Ma gli artisti non hanno proprio niente da fare tutto il giorno?”
 Alla sera, di nuovo nell’attivo, steso sul letto fissò a lungo il soffitto nella penombra. Doveva assolutamente rimettersi in carreggiata e, nell’immediato, doveva assolutamente dormire.
 Credette di esserci riuscito. La sveglia trovò un uomo riposato, rilassato e di buon umore. Un ultimo sottile dubbio fu messo in fuga da un rapido controllo. Nulla era fuori posto, nulla era sto rotto e spostato durante la notte, nell’attico chiuso dietro la porta blindata.
 Vuoi vedere che la visita alla stronza, anche se l’esito era stato diverso d quello previsto, l’aveva davvero guarito? Vuoi vedere che il loro incontro era giusto quello che ci voleva? Ma certo, avrebbe dovuto capirlo. Il fatto di rivederla, lo sforzo di chiederle perdono, l’umiliazione, la rabbia che aveva provato dopo, era esattamente quello che ci voleva per liberarlo dal suo senso di colpa inconscio e per guarirlo dalla sua psicosi. Erano il suo castigo. Delitto e castigo. Semplice e chiaro. Ora era purificato. Ora poteva pensare al futuro, aveva di nuovo la vita davanti.
 Poco dopo Ferdinando , con passo agile e sorriso sulle labbra, uscì dall’ascensore e si diresse verso la Gtv blu. Davanti alla guardiola c’era Mimmo, il figlio maggiore di Giacomo.
 “Ueilà, capitan Mimmo, tutto bene in trincea?” gli gridò Ferdinando, ancora lontano. “Siamo sempre svegli e all’erta?”
 “Magari, professore.” rispose l’uomo dai capelli neri e ricci e la camicia a quadri, mentre la mascella gli si stirava in uno sbadiglio. “Magari fossi sveglio come lei, che dorme così poco. E’ rientrato da un paio d’ore e già va al lavoro.”
 Ferdinando impallidì e si bloccò. Fissò Mimmo e capì che non stava scherzando. Compì una deviazione e si diresse verso la guardiola.
 “Scusa, cosa dici? Io sono rientrato ieri sera alle dieci, più o meno...”
 “Quando è rientrato ieri non lo so, non c’ero, sono arrivato dopo, dico solo che è uscito stanotte alle due, due e mezzo, è stato fuori te ore, più o meno. E ora va a lavorare come se niente fosse. Eh, professore...” Mimmo era vicinissimo e gli allunò un leggero pugno scherzoso allo stomaco, ridacchiando. “Vorrei avere io la sua energia.”
 “Io stanotte... sei sicuro?”
 “Come se sono sicuro, e che non non la conosco? Non conosco la sua Alfa Gtv, quella belva? E’ uscito, le dico, l’ho anche chiamata, ma lei non mi ha risposto, sembrava immerso in chissà quali pensieri, è partito e tre ore dopo è tornato.”
 Notando lo sguardo sconcertato di Ferdinando, Mimmo deciso di essere ancora più convincente. “Guardi, se ci pensa, ricorderà che ieri sera la sua auto era parcheggiata laggiù” e indicò l’angolo in fondo a destra del salone seminterrato “mentre adesso è qui dove la vede, dove l’ha messa tornando stanotte.”
 Ferdinando sorrise a denti stretti, batté una pacca sulla spalla del giovane e mise in moto l’auto. Poco dopo era sulla statale e, con gesto quasi automatico, alzò l’antenna e girò la manopola della radio. Se Mimmo diceva la verità, non era per niente guarito, anzi era peggiorato. Era addirittura uscito, e il fatto di non ricordare dove fosse stato lo terrorizzava.
 Dovevano passare solo pochi minuti prima che trovasse risposta al suo interrogativo. La ricevete dalla voce anonima e uniforme dello speaker della radio: “Un efferato delitto... la vittima si chiama Irene Paliuri, aveva trentadue anni, è stata trova all’alba da un netturbino nel cortile del caseggiato in cui si trova il su alloggio, dove evidentemente stava rientrando. Dalla prima ricostruzione, è stata accoltellata molte volte, in varie parti del corpo, il che escluderebbe il tentativo di rapina. L’assassino ha voluto infliggerle un’agonia lunga e dolorosa...”
 Ferdinando accostò e spense il motore. Ai lati della strada si stendevano i campi, i casolari e, a intervalli regolari, i tralicci dell’alta tensione. Il sole si  stava aprendo la strada fra le nuvole azzurrognole. La radio continuava parlando di indagine, di autopsia, ma lui non ascoltava più.
 “Non voglio farti andare via tranquillo e soddisfatto...”
 Ora sapeva dove era stato in quelle tre ore. Lo sapeva meglio che se fosse stato cosciente. Meglio che se si fosse visto avviare la Gtv parcheggiare fuori vista, appostarsi  in q quel cortile, aspettare Irene, chiamarla come se volesse parlarle ancora e, appena le era stato abbastanza vicino, vibrare il primo fendente.
 Si vedeva distintamente chino sul corpo della giovane donna a godersi le sue smorfie di dolore, i suoi occhi verdi colmi di terrore, la sua consapevolezza di aver ancora pochi minuti di vita, la lama che entrava nella carne , che ne usciva, che entrava di nuovo, usciva, entrava, usciva.
 Aveva lasciato tracce? Non lo sapeva. E l’arma del delitto, dov’era? Forse era rimasta nel corpo di Irene? IL notiziario non l’ava detto, ma gli investigatori non dicono mai tutto ai giornalisti. Qualcuno l’aveva visto? Qualcuno che avrebbe potuto riconoscerlo? Nemmeno questo sapeva. Però almeno una persona, Mimmo, sapeva che quella notte era uscito di casa...
 Come al solito, Enrico Faruglio, il paziente numero ventidue, se ne stava nella sua camera al buio. La sua famiglia possedeva il pacchetto di maggioranza di una grande società operante nella gomma-plastica.
 Ferdinando ordinò alla Rossi di alzare la tapparella L’infermiera professionale obbedì, e la finestra mostrò la gazzella dei carabinieri che percorreva lentamente il viale ghiaioso del parco della clinica.
 Il direttore dell’Aurora d’Argento fissò inebetito il veicolo scuro ed enorme che avanzava inesorabile, inarrestabile. I due funghi luminosi sul tettuccio si accendevano e si spegnevano, facendo pensare a un paio di fauci che sogghignavano, in attesa di azzannare la vittima designata.
 Non guardò Faruglio che, all’irrompere della luce del sole, si era raggomitolato sotto il lenzuolo formando, come al solito, un bozzolo tremante. Rientrò nell’ufficio, ripose la cartella clinica di Faruglio nella cassettiera e sobbalzò allo squillo del telefono interno. Scattò verso l’apparecchio ma la Galvani, una delle due impiegate amministrative, l’aveva preceduto.
 “Sì, sì, certo, è qui.” stava dicendo alla cornetta. “Ora glielo dico.”
 La Galvani, una donna dai capelli biondi corti e dal seno molto pronunciato sotto la divisa, posò la cornetta e guardò il suo principale. “professore, ci sono i carabinieri, in questo momento sono all’accettazione, hanno chiesto di lei, dovrebbe scendere subito, dicono che è importante.”
 Senza die una parola, Ferdinando uscì dall’ufficio e poi dal reparto, ma non entrò nell’ascensore che l’avrebbe condotto esattamente dentro l’accettazione. Imboccò invece la scala che era usata solo dagli addetti alle pulizie e alla sicurezza. Senza incontrare nessuno, arrivò nel parcheggio interno, salì sulla Gtv, mise in moto e si diresse all’uscita. Proprio mente superava il cancello  davanti a sé aveva solo la statale e i campi, vide nello specchietto retrovisore la gazzella. I due funghi lampeggiavano sempre. Ingranò la marcia e scattò in avanti.
 Era tutto finito. Finito l’attico con il Minet e il Degas, finiti i viaggi in Kenya e in Madagascar, finiti i Bot e i Cct, finita la granturismo su cui stava viaggiando in quel momento, basta Johnnie Walker e cene al ristorante e strisce di coca, niente più Simona né Clotilde né nessun’altra.
 Avrebbe voluto tornare nella grande cucina con il tavolo di marmo e la grande credenza, sul balcone che dava sul cortile. Allora voleva fare grandi cose, e sua mamma sorrideva e lo accarezzava, gli asciugava il sudore e gli diceva di non tenere gli occhi troppo vicini al quaderno su tavolo.
 Ma tutto quello non c’era più, se n’era andato e non sarebbe più tornato. Quanto alla clinica, era appena uscito per non rientrarci mai più, nemmeno come paziente.
 Immaginò i titoli dei giornali. Un medico arrestato non era una novità. Un medico famoso arrestato per un delitto efferato sì. Uno psichiatra che si rivelava un pericoloso psicopatico poi!
 La Gtv sfrecciava sulla statale, ruggendo e facendo lo slalom tra gli altri veicoli. Ferdinando stringeva spasmodicamente il volante, con la testa che gli pulsava e gli occhi che gli bruciavano. Forse aveva già predisposto via radio un posto di blocco. Questo timore gli impediva di riflettere con calma. Ma, in fondo, non c’era niente su cui riflettere. Non aveva modo di dimostrare la sua innocenza perché non poteva dimostrarla nemmeno a se stesso. Gli sembrò di vedere Irene che lo guardava con odio, che gli puntava contro il dito accusatore, che gli teneva aperta la porta con disprezzo.
 “Non è stato un piacere rivederti e spero che non accada più...”
 Era forse quella la sua vendetta? Era forse quello il suo castigo?
 L’autotreno sbucò dalla curva proprio mentre  Ferdinando stava sorpassando un trattore. Avrebbe potuto rientrare, probabilmente, se proprio in quel momento non avesse perdo il controllo dell’auto. Premette con forza il freno, con il solo risultato di compiere un lungo testacoda. Tentò disperatamente di raddrizzare il voltante, e sentì l’asfalto che sfuggiva inarrestabile sotto le gomme, ormai prive di presa. Vide la mole dell’autotreno che gli incombeva sopra, che ormai occupava tutta la visuale, e che si ingrandiva sempre di più a folle velocità.
 Voleva fare grandi cose, voleva avere tante cose... Gli stringevano la mano, si complimentavano con lui, ma chi erano? Come si chiamavano? Simona voleva sapere quando si sarebbero rivisti. Irene era ancora ferma accanto alla porta aperta. Ma cosa voleva ancora?
  Ferdinando urlò.
 Mormorando “Dio santo, Dio santo...” il maresciallo Giovanni Barbero osservava i pompieri al lavoro sull’Alfa Gtv, la cui parte anteriore era ridotta a una lamiera accartocciata, incastrata sotto il muso dell’autotreno.
 I lettighieri se n’erano andati,appena era stato chiaro che per loro non c’era niente da fare. Il volante aveva sfondato il torace del guidatore e il parabrezza l’aveva quasi decapitato. I pompieri dovettero lavorare o con la motosega, prima che i necrofori potessero ricomporre quello che era rimasto del direttore della clinica “Aurora d’Argento”. Il trattore era capovolto sul ciglio della statale, ma l’agricoltore che lo guidava era rimasto illeso. Il conducente dall’autotreno era seduto su un paracarro, in stato di choc. Il furgone funebre e il camion dei pompieri erano parcheggiati di traverso accanto alla gazzella de carabinieri.
 Il maresciallo Barbero guardò il suo più giovane collega che teneva indietro i curiosi La colonna dei veicoli fermi a già lunga quasi un chilometro, e la folla dei curiosi formava un semicerchio intorno alla zona dei sinistro.
 “Verzotto, ma tu l’hai capito perché è scappato?”
 “Io no. E lei maresciallo?”
 In quel momento i necrofori riuscirono  depositare il cadavere straziato su una lettiga, e si avviarono verso il furgone che aveva già il portello posteriore aperto. Barbero si accese una sigaretta e tese l’accendono al collega.
 “Mah, cosa vuoti che ti dica? Abbiamo arrestato un certo Corrado Ancili, il maniaco che ha assassinato quella donna, Irene Paliuri Un testimone lo accusa, lui confessa, gli troviamo anche l’arma del delitto Scopriamo che ha già avuto in passato un ricovero nel reparto neuropsichiatrico, dove era era stato assegnato al professore Ferdinando Culicchia. Allora andiamo dal professore per chiedergli se ricorda qualcosa di Ancili, magari qualcosa che ci può aiutare a capire il movente. E quello, invece di ascoltarci, scappa e si ammazza.”
 “Valla a capire oggi la gente, maresciallo.”
 
(pubblicato su “Inchiostro” Anno 6-Numero 6-Dicembre 2000/Gennaio 2001.)