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Il ritorno di Roberta

Era morta. Di questo era certa, perché era lei che l’aveva voluto. Aveva deciso di fare il passo dall’altra parte, ed ecco l’altra parte. Le bolle screziate di viola, giallo e azzurro ruotavano e pulsavano, e intanto cambiavano. Una bolla assunse l’aspetto di un apparecchio telefonico, un’altra di un volto di bambina con le trecce e le lentiggini, un’altra ancora di un libro con le pagine che giravano da sole, come mosse dal vento. Roberta le vedeva roteare intorno a lei, avvicinarsi da tutte le direzioni ma, prima di arrivare a toccarle, si dissolvevano in un turbine di filamenti e coriandoli, mentre altre bolle comparivano sullo sfondo. Tutto avveniva lentamente, silenziosamente.
   Roberta provò a raccogliere e riordinare i pensieri, ma invano e infine capì. Quella bolle e quelle figure erano i suoi pensieri che si dissolvevano appena lei quasi riusciva a toccarli e ad afferrarli. Ebbe la conferma della sua intuizione appena provò a fissare intensamente una particolare bolla e a decidere che diventasse un gatto, e vide che su quella bolla, mentre pulsava e si gonfiava, già era spuntato qualcosa che assomigliava a una coda pelosa e si era aperto un paio di occhi rotondi e scintillanti.
Ma immediatamente venne il dolore, una fitta lancinante che la trafisse come una lama e la costrinse a interrompere, ad abbandonare il gatto ormai riconoscibile. E subito il gatto esplose e si dissolse in quella silenziosa tempesta multicolore.
Ma il dolore presupponeva un corpo, e Roberta non vedeva più il proprio, per quanto ci provasse. Ma soprattutto non lo sentiva. Se anche avesse avuto le braccia e le gambe, difficilmente avrebbe potuto muoverle, immersa e compressa in quella sostanza fluida e gelatinosa, in quella dimensione senza alto né basso, né davanti né dietro.
Una sostanza che le comunicava un calore piacevole, un’immensa pace, il desiderio di abbandonarsi a quel galleggiare, di dimenticare tutto ciò che era stato, senza tentare di fare niente, di cambiare niente. Un calore e una pace che duravano e anzi aumentavano se vi si abbandonava, ma che si tramutava in dolore se appena tentava di muoversi, di ricordare o di pensare.
Poi c’era quell’odore acuto e sgradevole, non sapeva identificarlo ma ricordava di averlo già sentito in passato. Quando? Dove? Roberta non voleva abbandonarsi. Voleva capire, voleva ricordare. Allora, cercando di ignorare le fitte dolorose, si concentrò sulle ultime immagini che riusciva a ricordare, sia pure in quel modo nebuloso, e subito una bolla rapidamente cominciò di nuovo a pulsare e a gonfiarsi. E infine vide un orso.


L’orso di peluche azzurro la fissava ironico con il suo fiocco rosso e sembrava dire “Te l’avevo detto” dalla mensola su cui era seduto accanto al calendario appeso alla parete. Era di nuovo successo. Roberta afferrò il vassoio dalla tavola apparecchiata, con il piede aprì il coperchio del secchio dei rifiuti e una cascata di foglie d’insalata, uova sode, piselli, maionese e fragole con panna  vi piombò dentro. Aveva preparato tutto la sera prima per lui, che però non era rincasato e nemmeno aveva telefonato, e ora era mattino inoltrato.
Roberta non aveva nemmeno provato a telefonare a ospedali e posti simili, perché‚ sapeva benissimo che non gli era successo niente di grave. Non si era nemmeno dimenticato, semplicemente aveva cambiato programma e non aveva ritenuto importante informare sua moglie. Sarebbe rientrato nel pomeriggio o addirittura il giorno dopo, avrebbero scambiato qualche parola insulsa e, forse, acceso la televisione.
Roberta ripose i piatti, le posate e i bicchieri pulitissimi,  si avvicinò alla finestra e guardò la strada. Si trovava al terzo piano di un palazzo di un quartiere che era stato periferia ma che ora era quasi centro ed era diventato abbastanza elegante senza essere ancora troppo costoso. Molti alloggi per uffici negli austeri palazzi grigi, pochi negozi e, sull’angolo, un ufficio postale dove c’era già un fitto via vai, come sempre a quell’ora.
Un tipo grande e grosso con una borsa a tracolla, una donna con un cappotto e un berretto neri, una ragazza con un giubbotto a colori vivaci e uno zaino, anch’esso a colori vivaci, stavano aspettando il tram accanto alla palina, ignorandosi a vicenda.  
Proprio in quel momento il camion della nettezza urbana si fermò davanti al cassonetto verde dei rifiuti, due netturbini con i guanti marroni e le fasce gialle fosforescenti sulle tute balzarono giù, afferrarono il cassonetto e cominciarono a trascinarlo verso le braccia meccaniche del camion. Guardando meglio, Roberta di accorse che entrambi i netturbini erano  donne, una bionda dall’aria piuttosto giovanile, l’altra bruna un po’ più- matura.
Più lontano si stendeva il giardinetto, come nel quartiere si era soliti chiamare quello che in realtà era un quadrato asfaltato con qualche aiuola, qualche platano, qualche panchina, un’edicola e una pompa di benzina. L’autunno era appena iniziato e il suolo del giardinetto, ora deserto, era coperto di foglie secche anche se gli alberi non erano del tutto spogli e non faceva freddo, tant’è vero che l’addetto alla pompa di benzina stava seduto all’aperto su una sedia pieghevole a sfogliare una rivista.
Le due addette alla nettezza urbana avevano finito con quel cassonetto, l’avevano riportato al suo posto e si stavano dirigendo verso il successivo, mentre parlavano tra loro ridendo e  il camion le seguiva a passo d’uomo. Un’auto rossa a sua volta seguiva a passo d’uomo il camion, la strada troppo stretta impediva all’autista di sorpassarlo, ma evidentemente lui non aveva fretta.
Un’auto si fermò all’altezza della pompa di benzina, l’addetto posò la rivista, si alzò e si diede da fare con la pompa e, mentre la pompa era in azione, si mise a parlare con l’automobilista, un tipo con giacca e cravatta che era sceso dall’auto. Il tram si fermò alla fermata, solo tre persone ne scesero ma, prima che il manovratore richiudesse le porte, una donna con una grossa borsa arrivò trafelata e fece in tempo a salire. Anche il benzinaio e il suo cliente ora stavano ridendo.
Tutte queste scenette di ordinaria vita quotidiana comunicavano a Roberta, sempre in piedi dietro il vetro della finestra al terzo piano, l’orrore di un mondo che proseguiva per la sua strada indifferente a chi soffriva. Cos’avevano tutti da ridere, da correre, da discutere? A nessuno importava niente che la sua vita, la vita di Roberta, la sua unica vita, fosse andata in pezzi? Nessuno vedeva la tenebra che si stava lentamente addensando nella sua testa e nel suo cuore?
Ormai non c’erano dubbi. Tutti stavano ridendo. Ridevano l’edicolante e i suoi clienti, ridevano quelli che entravano e uscivano dall’ufficio postale, ridevano gli uomini e le donne, i giovani e gli anziani che si stavano di nuovo raggruppando alla fermata del tram, le donne con i bambini per mano, gli studenti con lo zaino e gli auricolari dei walkman.
Con uno sforzo di volontà. Roberta si allontanò dalla finestra, accese la televisione che stava trasmettendo una sit-comedy americana. In un ridicolo salotto due donne, una bianca e una nera, stavano ridendo dandosi gran manate l’un l’altra.
Roberta si guardò nello specchio, abbastanza grande per vedersi a mezza figura, nell’entrata tra l’attaccapanni e il portaombrelli. L’immagine che lo specchio le rimandò le sembrò la conferma, visibile e incontrovertibile, della rovina della sua vita. Chi mai avrebbe potuto indovinare i sentimenti, i rimpianti e i sogni dietro quelle occhiaie, quelle rughe, quelle smagliature sulle braccia? Si passò la mano tra i capelli sciolti in disordine, che una volta erano stati biondo lucente e ora erano slavati, sfibrati.
Ma quali sogni? Quelli se n’erano andati da moltissimo tempo, ormai. Ma erano poi davvero esistiti o facevano parte di quelle cose del passato che, a distanza di tempo, sembrano migliori di quanto realmente sono state?
Roberta si sentì stanchissima, spense il televisore e si lasciò cadere sulla poltrona, afferrò un fotoromanzo, ne sfogliò alcune pagine senza leggerle e lo gettò sul pavimento in mezzo ad altri fotoromanzi. Non avrebbe tentato di discutere con lui quando fosse rientrato. Aveva tentato in passato e ormai sapeva perfettamente in anticipo come si sarebbe svolta la discussione. Se discussione si poteva chiamare.  
“Cosa? Cosa?” espressione di finto stupore che a lui riusciva benissimo, come se lei gli avesse parlato di qualcosa di stranissimo e incomprensibile, come se gli avesse citato concetti di filosofia o astrofisica, per passare subito dopo all’indignazione.
“Per favore! Sto passando delle giornate di merda, il commercialista mi assilla, un cliente mi ha fatto una piazzata per una stronzata che non andava nel suo fottutissimo catalogo, il mio socio è fuori di testa, e tu mi vieni a dire che non sono tornato per cena?! Ma ti rendi conto?!”
Stava parlando del suo studio pubblicitario. Uno studio ormai ben avviato che produceva depliant, opuscoli e cataloghi per concessionari d’auto, catene di ristoranti e industrialotti vari. Nello studio lavoravano a tempo pieno due grafici, una fotografa e un copywriter.
Poi c’erano due agenti pagati a provvigione che scarpinavano a procurare contratti ma era lui che, una volta stabilito il contatto, concludeva la trattativa, mentre il suo socio seguiva la lavorazione. E lo aveva sentito anche parlare al telefono della possibile fusione con uno studio specializzato in spot televisivi.
“Siamo fuori di centocinquanta milioni con la banca, se ti porto qua i conti ti spaventi, e tu mi vieni a parlare di...” Era tutto vero e falso al tempo stesso. Roberta ormai sapeva che quelle difficoltà erano una componente normale del lavoro di suo marito, non erano quelle che gli impedivano di passare più tempo con lei, o almeno di parlare con lei nei pochi momenti che erano insieme. Soprattutto, non erano quelle difficoltà che gli impedivano di continuare a essere sincero e sensibile come era stato un tempo.
Roberta credeva di aver capito tutto quando quelle donne avevano cominciato a chiamarlo per telefono a casa senza più preoccuparsi di nascondere la loro relazione, senza il minimo imbarazzo se era Roberta a rispondere, addirittura le lasciavano tranquillamente messaggi per lui! Aveva provato a parlare con lui anche di questo, ma era di nuovo scattato il trucco del finto stupito e del vero indignato per finire di nuovo, come sempre, nel ritornello del “Come fai a non capire?”
Trucco che aveva funzionato solo finché lei non l’aveva capito. Ma ormai Roberta rifiutava di farsi assegnare la parte dell’insensibile e della meschina, gli aveva risposto per le rime e allora lui era passato allo spazientito prima e al volgare poi: “Senti, torna ai tuoi fotoromanzi e alle tue telenovelas e non mi rompere, non vengo certo a casa a farmi fare la predica, ho altro da pensare se permetti!”
Ma lei non aveva voluto tornare ai fotoromanzi e alle telenovelas, ed era stato allora che l’aveva colpita. Non aveva perso momentaneamente il controllo, no. Aveva voluto farle sentire sulla pelle la distanza che ormai li separava, e aveva appositamente e freddamente creato la situazione e il contesto. Stranamente Roberta non era stata stupita, aveva ricevuto lo schiaffo come l’inevitabile e definitiva conferma di una vita che era andata esattamente e completamente al contrario di come lei aveva sperato e progettato. La sua.
Ovviamente la colpa non era di quelle donne. La rabbia verso quelle donne che conosceva solo di vista rappresentava una fase ormai superata. Il problema non era nemmeno che suo marito non l’amava più, ma che la disprezzava. Anzi, la odiava. Se n’era accorta quando lui non si era più limitato a ignorarla, ma aveva cominciato a fare appositamente tutte le cose che la ferivano, che le facevano sentire quanto poco lei valesse ai suoi occhi.
Non tutto il male viene per nuocere, pensò Roberta. Quello schiaffo, e poi il fatto che non fosse rientrato ieri, le lunghe ore nella grande casa silenziosa, le  permetteva di fare un bilancio e tirare le somme. Prima o poi bisogna tirarle. E in qualunque modo le tirasse, il risultato era sempre lo stesso.
Non c’era più nessun modo di continuare la sua vita insieme a lui così com’era, non c’era più nessun modo di cambiare la sua vita insieme a lui, se mai c’era stato, e non c’era più- nessun modo di ricominciare la sua vita senza di lui. Non aveva più la forza, non aveva più la fantasia. Arrivati questo punto, stava solo a Roberta decidere se voleva continuare o no quella non-vita, com’era diventata la successione dei giorni e delle ore.
 

Fabio intravide lo spazio libero accanto al marciapiede e rapidamente parcheggiò l’Alfa Spider color argento, spense il motore, premette il pulsante dell’alzacristallo e sospirò. Prima di partire aveva provato a telefonare, ma nessuno aveva risposto. Durante il tragitto aveva riprovato con il telefonino, ma sempre senza risultato. Strano, a quell’ora lei era sempre in casa, perché era il giorno di libertà della domestica. Ma se non c’era tanto meglio, quel giorno non era in vena di discutere. A essere sinceri, non era mai in vena di discutere di qualcosa che esulasse dal suo lavoro o dalla politica (più che altro con Ruggero Luzzatto, il suo socio, e solo in tempo di elezioni) o dal calcio (con chiunque, durante il campionato di serie A).
Non sopportava soprattutto di discutere di cose come rapporto, scambio, crescita, maturazione e altre cose strane che invece erano gli argomenti preferiti di sua moglie. Cose che si discutono da fidanzati, da giovani, che lui e la sua attuale moglie discutevano quando entrambi erano studenti, quando non c’erano da sbarcare il lunario perché ci pensavano mamma e papà, quando a casa c’erano sempre il piatto in tavola e i vestiti lavati e stirati. Non ora, non quando ci sono i debiti, la casa, il lavoro, le tasse.
Fabio ricordava ancora le lagne quando avevano dovuto cambiare città perché lui potesse avviare l’attività che ora faceva vivere entrambi più che bene, anche se lei faceva finta di non accorgersene. D’accordo, le piaceva un sacco insegnare e si era anche affezionata ai suoi allievi, ma non era forse assurdo che lo facesse quando non era più necessario? Se proprio voleva un hobby, niente le impediva di dipingere come faceva anche Viviana, la casa era abbastanza grande per ricavarci uno studio, oppure di coltivare piante sul terrazzo. Non sarebbe stato certo più inutile della letteratura e della poesia che lei voleva insegnare.
Non faceva freddo, anche se l’autunno era iniziato. Fabio mise sul braccio il giaccone Nabuk, aprì la portiera e scese dall’auto. Indossava una giacca di gabardine a quattro bottoni, una camicia di popeline, una cravatta di seta stampata e un paio di pantaloni pied-de-poule dal taglio dritto. Aveva i capelli tagliati corti e laccati, il volto glabro e la pelle curatissima.
Nessuna risposta nemmeno al citofono. Fabio si decise a cercare la chiave del portone del palazzo nella tasca del giaccone che teneva sul braccio, entrò e si diresse verso l’ascensore.
“Buongiorno, signor Rinaldi! C’è questo per lei!” Era la voce chioccia della strega, come Fabio chiamava donna Clorinda, la custode. Attraverso la vetrata della guardiola intravide le carte dei tarocchi allineate sul tavolo e il corvo impagliato, dietro la donna grassa e imbellettata che stava protendendo le sue massicce tette per porgergli una fattura e una raccomandata. Tutti sapevano che la custode arrotondava lo stipendio con sedute spiritiche, ectoplasmi, lettura delle mani, delle stelle e altre stupidaggini che Fabio non aveva mai capito.
Arrotondava? Sarebbe più esatto dire che spillava soldi ai gonzi che ci credevano e che erano molti, a giudicare dal via vai. Nell’ultima assemblea di condominio Fabio aveva insistito perché a quella donna fosse vietato l’esercizio delle sue “arti mistiche e arcane” che squalificavano il palazzo, ma invano. Tutti democratici e tolleranti, oggigiorno!
L’assemblea si era limitata a vietarle l’affissione di locandine all’interno del palazzo, cosa di cui lei non aveva mai avuto bisogno. Per cui Fabio sapeva benissimo che il sorriso che ora la strega aveva stampato sulla faccia era di pura circostanza, e si guardò bene dal ricambiarlo.
   Con un grugnito le strappò dalle dita dipinte di verde la corrispondenza e, mentre le porte dell’ascensore si richiudevano, tornò con il pensiero a sua moglie che, per inciso, con la strega andava d’accordissimo. Più volte Fabio le aveva sorprese a parlare fittamente nell’androne o, più spesso, proprio dentro la guardiola. Quando lui compariva loro tacevano di colpo e si salutavano frettolosamente. Non aveva mai chiesto a sua moglie cosa si dicevano perché era sicuro di saperlo. Parlavano di lui. Di come renderlo felice, come riaccendere il suo interesse e il suo desiderio sessuale. A questo servono le cartomanti e le chiromanti, no?
 Le discussioni sulla loro vita coniugale Fabio era sempre riuscito a evitarle o a bloccarle sul nascere (di questo si complimentò con se stesso per la propria abilità) ma non gli sguardi, le allusioni e le mezze frasi. Ormai sospettava che sua moglie volesse coscientemente farlo sentire in colpa. In passato non l’avrebbe fatta così maligna, ma ora non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Sì, l’unica volta che gliele aveva date se le era proprio cercate, e forse se l’avesse fatto prima sarebbe andato tutto molto diversamente.
Davvero lui non aveva nessuna colpa? Quando aveva un improvviso attacco di autocritica, Fabio non era sicurissimo di essere completamente innocente. Lei si era convinta che lui avesse una relazione con Viviana e gli era stato facile negare senza precisare, ovviamente, che l’avrebbe avuta volentieri se solo Viviana ci fosse stata. Però c’era stata Monica per un anno intero, e prima ancora Flavia, di cui sua moglie non aveva mai saputo nulla.
Ma che diamine! Un uomo non poteva mica rimanere appiccicato e sbaciucchiare sempre solo la stessa donna che con gli anni era diventata così monotona, così limitata, così prevedibile!
Dopo aver aperto la porta Fabio inciampò in qualcosa e, subito dopo, fu colpito da due cose, entrambe violente e dolorose. La prima veniva da fuori di lui, ed era una  zaffata del gas che impregnava l’intero alloggio. La seconda invece veniva da dentro ed era più difficile da identificare, simile a un turbine che dentro di lui si allargava e cresceva.
Lei era sul letto matrimoniale e faceva uno strano effetto, così vestita (anche con le scarpe) stesa sopra le coperte e le lenzuola perfettamente rimboccate, i capelli sciolti sul cuscino. Al centro di quella corona i lineamenti erano distesi, forse un po’ tirati, gli occhi chiusi e le labbra strette. Tutto quasi normale, se non fosse stato per quel colorito violaceo.
Fabio gettò il giaccone sul pavimento, si chinò su di lei e udì il respiro flebile, ai limiti della percettibilità. Correndo chiuse i rubinetti del gas della cucina, spalancò le finestre e, tossendo furiosamente, telefonò al pronto soccorso.
Sempre correndo, tornò nella camera da letto, la afferrò per le spalle, la scosse violentemente gridando, la schiaffeggiò. Lei aprì gli occhi, ma quegli occhi roteavano senza vedere. Anche la bocca si aprì ed emise un sospiro lungo e profondo.
Quindi si lasciò cadere sul divano di pelle, guardando sua moglie stesa sul letto attraverso la porta socchiusa della camera da letto, e si lasciò risucchiare dal turbine che ormai gli riempiva il petto e la testa. Ora vedeva che l’oggetto in cui aveva inciampato, entrando, era un plaid arrotolato.


Fabio aveva ancora la giacca e la camicia, ma il colletto era sbottonato e non c’era più la cravatta di seta stampata. Era seduto sulla panca di formica e attendeva, nell’atrio del pronto soccorso al pianterreno dell’ospedale San Domenico Savio, fissando la porta che si era richiusa dietro sua moglie.
Quando l’ambulanza era arrivata anche il flebile respiro si era interrotto, e il cuore era molto debole e irregolare. All’interno del veicolo un infermiere aveva subito collegato e azionato l’erogatore d’ossigeno con maschera facciale.
Suicidio. Lei aveva posato un plaid arrotolato sotto la porta dell’alloggio in modo da trasformarlo in una camera a gas ermetica. Poi aveva aperto tutti i rubinetti del gas della cucina, aveva inghiottito molte compresse di Roipnol e infine si era stesa sul letto ad attendere il sonno senza sogni della morte.
Né il neurologo dottor Amedeo Saraceni nè il suo assistente dottor Giuseppe Bortasso si erano stupiti di quello che avevano visto. Gas più sonnifero é la combinazione ricorrente di chi vuole davvero farla finita e non solo compiere un gesto dimostrativo. La situazione era tristemente chiara. Prognosi infausta, secondo il freddo linguaggio ospedaliero. I sintomi erano quelli del coma lieve, in cui ogni forma di comunicazione é interrotta. Una specie di sonno da cui é impossibile risvegliarsi. Gli occhi della paziente erano aperti, ma era possibile ravvisare deboli stimoli puramente riflessi solo alla luce e ai rumori forti e improvvisi. Ma l’elettroencefalografo mostrava frequenze basse fino a 2 cps,. di basso voltaggio, prevalentemente localizzate sulle regioni anteriori dove era possibile riscontrare qualche basso potenziale aguzzo.
In quel cervello, chissà come e chissà dove, qualcosa ancora viveva.
“Temperatura?”
“Trentaquattro virgola due. Pressione non rilevabile. Abbiamo già collegato il respiratore automatico.”
“Ottimo. Quanto tempo é passato tra il gesto e il ritrovamento?”
“Ignoto. Non sappiamo nemmeno esattamente quante compresse abbia inghiottito. ma conosciamo la marca. Roipnol. Ma forse é troppo tardi lo stesso.”
Mentre Saraceni indossava freneticamente il camice che l’infermiera gli porgeva e Bortasso lo informava rapidamente, avvenne il primo arresto cardiaco. Bortasso cominciò subito il massaggio esterno.
“Nessuna reazione! Nessuna reazione!”
“Lasci, Bortasso, procedo io! Lei pensi alla soluzione fisiologica!”
Mentre Saraceni si avvicendava sul petto nudo della paziente, il suo assistente iniettava  la soluzione fisiologica di cloruro di sodio che, avendo la stessa densità del plasma sanguigno, avrebbe impedito il collasso delle vene. Senza la soluzione fisiologica, in seguito sarebbe stato impossibile ritrovare la vena per iniettarvi eventuali farmaci. Finalmente l’elettrocardiografo registrò alcune pulsazioni, molto deboli e molto irregolari. La temperatura salì fino a 41,5 e la pressione si assestò tra 80 e 90 mm.
L’attività del cervello rimaneva immutata. Ma quei segnali così strani e insoliti... Bortasso non li aveva mai visti. Ma la patologia del coma è ancora in gran parte ignota, pensò, che tutto é possibile. Ci sono casi di coma lieve che durano anni, e di coma profondo da cui il paziente si risveglia quando meno te lo aspetti. La voce del suo superiore lo riscosse.
“Per il momento non possiamo fare altro. Portatela in reparto rianimazione, monitoraggio continuo dei parametri e supporto farmacologico. La rivedrò tra qualche ora.”
“Bene, dottor Saraceni.”
Nel frattempo Fabio aveva risposto a monosillabi alle domande del poliziotto di servizio e si era messo a osservare la varia umanità sofferente che bivaccava in quell’atrio in attesa di qualcosa, un aiuto, una parola. L’ambiente era un corridoio bianco in cui erano distribuite irregolarmente sedie tubolari e panche di formica, tre lettighe su ruote accanto alla parete, il tabellone irto di frecce che indicavano  la labirintica collocazione dei diversi reparti.
Su una panca erano seduti un giovane con un braccio fasciato al collo e una donna che poteva avere cinquant’anni con un occhio coperto da un voluminoso  bendaggio. Su un’altra panca, una donna magra con i capelli lisci, un maglione e un paio di pantaloni di cotone stava sdraiata come se non riuscisse a reggersi in piedi e nemmeno seduta. Sembrava drogata o ubriaca, oppure moribonda, e sembrava sola. Un tipo grasso con giaccone a coste, dopo aver osservato i suoi inutili tentativi di alzarsi, aveva insistito che qualcuno facesse qualcosa finché un giovane medico occhialuto, passando di corsa, aveva sbottato: “Se lei ci dice in quale facoltà di medicina si è laureato, saremo ben lieti di seguire i suoi suggerimenti!” e l’uomo era stato zitto.
Fabio scattò in piedi quando vide aprirsi la porta che aveva inghiottito sua moglie e uscirne il dottor Saraceni e il suo assistente, e tutti e due avevano l’aria desolata ma controllata di chi ha già visto tanti casi simili. Non attesero le sue domande.
“La prognosi è ancora riservata, signor Rinaldi. Sua moglie é collegata al respiratore automatico. Pressione, cuore e temperatura sono costantemente sotto controllo. Il cuore é molto debole e irregolare, e stiamo attuando una terapia farmacologica.”
“Ma... vivrà? Il cervello...”
“E’ presto per dirlo. Quanto al cervello...” Saraceni s’interruppe e abbassò     gli occhi, “l’attività è quasi zero. C’è stato arresto cardiaco, l’abbiamo superato, ma è impossibile sapere quali danni ha riportato il cervello. Dopo quattro minuti le lesioni al cervello potrebbero essere gravi e permanenti.”
Non era quella la risposta che Fabio voleva.
“Non ha ripreso conoscenza” aggiunse Saraceni.
“Per ora, “ precisò l’assistente ”e non è possibile prevedere quando la riprenderà, né se la riprenderà.”
Fabio si avviò all’uscita dell’ospedale, superò la garitta del guardiano presso la quale un medico sostava a fumare una sigaretta, e si diresse al parcheggio dei taxi.
Sua moglie non era viva e non era morta.  
 

Ora che aveva ricordato cos’era successo, Roberta ricordò anche cos’era l’odore che percepiva perché l’aveva sentito quando sua madre era morta, quando era andata a trovare lo zio Alberto che aveva avuto un incidente stradale e quando lei stessa era stata operata di calcoli renali. Era l’odore che si sente in tutti gli ospedali e solo negli ospedali, quel misto di disinfettante e di detersivo, di pulito e di asettico che, invece di rassicurare, spesso deprime e a volte terrorizza.
Ma ora non era in un ospedale, non vedeva né sentiva nulla che facesse pensare a un ospedale. Niente lettighe né infermieri né cartelli di “vietato fumare” ai sensi eccetera. Ma in un ospedale certo c’era stata perché, se aveva cercato di morire, forse qualcuno l’aveva trovata e aveva chiamato l’ambulanza. Almeno, é quello che si fa di solito in questi casi. Ma allora, dove si trovava ora? Soprattutto, cos’era ora?
Mentre Roberta si poneva queste domande senza riuscire a rispondere, alcune bolle si erano raggruppate in un grappolo vibrante e pulsante e quel grappolo stava lentamente assumendo una forma definita. Quel grappolo non lo comandava né guidava lei, viveva di vita propria.
Viveva? Forse non era possibile parlare di vita, non in quello strano mondo che forse cominciava proprio dove la vita finiva, un mondo che confinava con il mondo dei viventi.
Ora il grappolo, senza smettere di pulsare e vibrare, assomigliava molto vagamente a un essere umano, aveva una testa, un  tronco, due braccia e due gambe, anche se il volto era grottescamente liscio. Vivo o no, quell’essere aveva delle sensazioni perché Roberta le percepì non avrebbe saputo dire come, ed erano sensazioni di paura e stupore. L’essere era stupito, stava risvegliandosi alla coscienza, stava osservando se stesso e ciò che lo circondava, forse si stava ponendo le stesse domande di Roberta.
E lui? Aveva tentato di uccidersi per colpa di quell’uomo. Cos’aveva pensato quando l’aveva trovata? Dov’era ora? Cosa stava facendo? Quanto tempo era passato? Per colpa di quell’uomo lei aveva tanto sofferto per tanto tempo e ora si trovava in quel posto tanto strano. E intanto lui passeggiava per la strada, leggeva il giornale, mangiava al ristorante, andava al cinema.
E incontrava altre donne con le quali, magari, chiacchierava di quella scema di Roberta che aveva avuto il buon gusto di togliersi di mezzo.
Questa volta il dolore fu lancinante, molto più di quello che aveva provato fino a quel momento, quasi insopportabile. Un dolore misto a nausea che poteva essere placato solo facendo del male a  chi quel dolore aveva provocato. Ma questo non era possibile perché lui non era lì, lui si trovava ancora dall’altra parte della barriera tra i mondi, e allora Roberta urlò.


L’infermiere aveva quasi finito il giro spingendo il carrello con i farmaci, e ormai credeva che  quel giorno non sarebbe successo più nulla che rompesse la noiosa e triste routine del reparto rianimazione. Aveva scrupolosamente somministrato le terapie secondo le prescrizioni dei medici e riportato i dati sulle apposite tabelle agganciate alle spalliere dei letti. Guardò l’orologio. Tra poco sarebbe arrivato il collega del turno di notte.
 Il corridoio era immerso nella penombra, illuminato solo dalla  luce notturna azzurrognola, il corrimano di legno fissato alle pareti per i pazienti che avevano difficoltà a camminare. Facendo progetti per la serata, l’infermiere arrivò davanti alla camera della Rinaldi, la paziente che era stata ricoverata tre giorni prima e che ora era collegata al respiratore automatico. Era l’unica paziente di quella camera perché le altre due pazienti, due donne anziane, erano morte proprio la notte precedente, una si era lamentata a lungo, e i due letti liberi erano già stati rassettati. Posò la mano sulla maniglia della camera e udì quell’odore.
Era un odore dolciastro, come di marcio. L’infermiere era stato alcune volte nelle camere frigorifere dove vengono portate le salme, ma quell’odore era diverso. Accostò il carrello alla parete ma, prima ancora di aprire la porta, udì quel ronzio assordante e realizzò, soprattutto a livello inconscio, che in quella camera stava succedendo qualcosa di  anomalo e di spaventoso.
Si fece forza, spinse la porta, entrò e si trattenne dal gridare. La donna sul letto era inarcata, le gambe e le braccia tese e rigide, le mani artigliavano selvaggiamente il materasso pneumatico antidecubito, il lenzuolo era sconvolto e raggruppato da un lato. Il letto vibrava ritmicamente, facendo rimbombare i piedi sul pavimento di mattonelle, il supporto della flebo dondolava pericolosamente.
Ma perché vibravano anche i due letti vuoti?
Il ronzio proveniva dall’elettroencefalografo, i pennini sembravano impazziti, le tre serie di segnali sulla striscia di carta erano una selva parossistica di picchi, aculei e curve sovrapposte e intrecciate, la striscia si arrotolava sul pavimento e si contorceva come un serpente.
L’infermiere premette il pulsante di richiamo, poi preparò freneticamente la fiala di sedativo. Ora vedeva che gli occhi della paziente erano spalancati e le pupille sembravano fissare qualcosa di orrendo. Guizzavano da destra a sinistra e viceversa, come se la cosa che stavano vedendo si muovesse. Tutte le vene del collo erano in rilievo, tutti i fili degli elettrodi fissati alla fronte erano tesi. Un mugolio animalesco scaturiva da sotto i cerotti sulla bocca che bloccavano la cannula endotracheale. L’infermiere stava per iniettare la fiala quando la collega si affacciò nella camera.  
“Cosa succede, Bruno? Che razza di odore! Ma cosa...”
“Non lo so, merda, guarda che roba, chiama il medico, muoviti!”
Prima che la ragazza potesse eseguire l’ordine il flacone della flebo esplose, proiettando liquido e frammenti di vetro in tutte le direzioni.
L’infermiera gridò. Non era una delle “anziane” dell’ospedale ma un po’ d’esperienza l’aveva, e quel fenomeno non l’aveva mai visto.
“E muoviti, cosa cazzo aspetti?” gridò Bruno mentre cercava la vena sul braccio della donna. Doveva gridare, se voleva farsi sentire al di sopra del ronzio e del fracasso dei letti sul pavimento. Un frammento di vetro l’aveva colpito e aveva lasciato sul suo zigomo una striscia di sangue.
Fu allora che la sedia tubolare che era accanto alla porta aperta partì di scatto, attraversò velocissima a mezz’aria la camera e colpì la parete opposta con un colpo sordo, quindi rimbalzò sul pavimento. Subito dopo, anche la caraffa di vetro che era sul ripiano del comodino sfrecciò attraverso la camera e si fracassò contro la parete opposta. Il fragore dei piedi dei tre letti sul pavimento accelerò il ritmo. La striscia di carta continuava ad ammucchiarsi accanto all’elettroencefalografo.
L’infermiera non volle vedere né sentire altro. Si voltò e corse via.


Roberta non udì alcun suono, quando aveva tentato di urlare. Forse in questo mondo i suoni non esistono ma, proprio mentre tentava di urlare, vide comparire, questa volta non più lentamente ma quasi di colpo, gli occhi e il resto del volto sull’essere vagamente umano che stava prendendo forma. E questo essere vagamente umano ora assomigliava a qualcuno che Roberta conosceva fin troppo bene.
Era il proprio volto che Roberta stava guardando, i propri occhi, i propri capelli, persino i propri vestiti. Era la sua sosia, il suo doppio, che ormai si era formata completamente. Non pulsava più, la pelle sembrava proprio pelle umana, i capelli biondi sembrano proprio capelli umani, ed erano i suoi, tutto era suo.
Ma gli occhi del doppio lampeggiavano di odio e rabbia, la bocca era contorta in una smorfia. Perché erano i suoi pensieri peggiori che avevano preso vita, i suoi peggiori incubi, la sua parte tenebrosa. Ma era una vita che non aveva nulla a che fare con il modo in cui viene abitualmente concepita. Era una vita diversa e potente, capace di superare la barriera tra i mondi, capace di compiere le azioni che a Roberta ormai erano precluse.
Il doppio la fissò, la sua bocca si atteggiò a un sorriso crudele e al tempo stesso rassicurante. “Sarò io la tua messaggera verso i viventi!” sembrò a Roberta di capire, e la violenza dell’odio che sentì in quel pensiero la colpì in modo quasi fisico.
Poi la donna-larva si voltò lentamente, fece due passi e apparentemente sparì nel nulla. Ma era solo sparita per quel mondo.


Il fenomeno era durato sedici minuti e, qualunque fosse stata la sua causa, era finito. Le uniche tracce erano i frammenti della caraffa e del flacone della flebo sparsi sul pavimento, il liquido che imbrattava il pavimento e le pareti. Poi c’era quella selva di curve e punte selvagge e impazzite che copriva la striscia di carta ammucchiata sul pavimento.
Il dottor Bortasso si chinò, afferrò la striscia e la esaminò in silenzio. Il caso aveva voluto che fosse proprio lui di turno quella notte, ed era stato lui ad accorrere al richiamo dell’infermiera terrorizzata che balbettava di oggetti che si muovevano da soli. Ma al suo arrivo nella camera era tutto finito, nessuna traccia nemmeno di quell’assurdo odore dolciastro. Chissà cos’hanno davvero visto e sentito questi due, pensò il medico.
La paziente era rilassata nel letto antidecubito dove lo stesso Bortasso, con l’aiuto dell’infermiere del turno di notte, aveva rassettato le lenzuola e ricollegato i cavi e le cannule.
“Quando avete aperto la porta, la registrazione elettroencefalografica su carta stava funzionando? Si era messa in funzione da sola?”
Quando un paziente è in coma, i parametri sono registrati permanentemente sul monitor. Solo in caso di necessità, il medico può azionare la registrazione sulla striscia di carta.
“Le assicuro che è successo esattamente come le ho raccontato. Può chiederlo anche a lei.”
Bruno, l’infermiere, indicò la collega ancora pallida. Il dottor Bortasso annuì, mentre guardava ancora un volta la striscia di carta. Non erano le classiche onde delta polimorfe tipiche del coma, ma nemmeno quelle ampie sinusoidali dell’epilessia. Erano tutti i tipi di onde mescolati e sovrapposti, nero su bianco a sfidare le sue nozioni scientifiche.
“D’accordo, Bruno, vada pure.” disse Bortasso.
Gli strumenti non registravano più alcuna reazione della paziente agli stimoli dolorosi, niente riflessi corneali e faringei, pupille midriatiche e non reagenti, ipotonia e perdita dei riflessi plantari.
Coma profondo.


Eccolo accontentato. Fabio si guardò intorno nell’alloggio vuoto senza quella donna a guardarlo con aria di rimprovero. Come aveva potuto essere tanto imbecille? Come aveva potuto dimenticare? Ora ricordava. Ricordava tutto.
Un ragazzo all’università, facoltà di lettere e filosofia. Fabio allora non aveva nessuna stima di se stesso ed era profondamente infelice. Aveva cominciato ad essere infelice alla scuola media e poi aveva continuato imperterrito. Non era bravo in nessuno sport, parlava poco, non sapeva dire parolacce come tutti i suoi coetanei e, soprattutto, era imbranato con le ragazze.
I suoi compagni di classe non facevano altro, nello spogliatoio della palestra o nella cremeria davanti alla scuola, che raccontare le avventure erotiche che avevano avuto con le ragazze, Ludovico persino con una professoressa ma Ludovico, si sapeva,  era il più ganzo di tutti.
Lui non raccontava mai niente perché non aveva niente da raccontare, e loro si divertivano a fargli domande imbarazzanti che lo facevano arrossire e balbettare. Certo, due ragazze c’erano state ma, chissà perché, lui non riusciva a capire perché mai quanto c’era stato tra loro avrebbe dovuto interessare o divertire qualcun altro. Forse i suoi amici inventavano allegramente, per una parte sicuramente era così, ma questo non consolava per niente Fabio perché lui non era bravo nemmeno a inventare.
Poi aveva incontrato lei, una chioma arruffata che traboccava da un berretto di lana, una lunga e morbida sciarpa nera, una giacca a vento gialla e un paio di calze di lana nera sotto una gonna plissettata a quadrettoni, le braccia cariche di libri, che si aggirava nei corridoi della facoltà.
Dovevano preparare lo stesso esame, si erano visti più volte e avevano chiacchierato. Con suo stupore si era accorto che con lei le parole venivano fuori da sole e non aveva bisogno di fare il minimo sforzo.  Certo, non si era fatto illusioni, ormai sapeva per esperienza che tutte le ragazze lo trovavano simpatico come si trova simpatico un barboncino. Al massimo, quando lo conoscevano meglio, alcune erano arrivate a stimarlo, ma non a innamorarsi. Innamorarsi mai.
Invece lei aveva visto qualcosa di bello e buono nel modo di parlare, nello sguardo, persino nell’aspetto di quel ragazzo imbranato, e gliel’aveva detto. Lei aveva avuto un amore finito male e sapeva valutare al di là dell’apparenza. Avevano fatto l’amore una prima volta e poi altre volte.
Lei non era sempre dolce e accondiscendente. Oltre ai problemi che aveva effettivamente, Fabio era bravissimo a crearsene altri da solo. Lei gli spiegava pazientemente che molti aspetti del suo carattere non erano dei difetti solo perché molti li consideravano tali.
Un giorno, sfondando le sue barriere difensive,  lo aveva sottoposto a uno stringente interrogatorio sulla sua vita fino a quel momento e gli aveva dimostrato che, se non era stata un’esaltante e meravigliosa avventura, nemmeno era stata lo schifo e il deserto che lui si compiaceva di pensare e descrivere. Vittimismo, ecco l’accusa che  gli aveva gettato in faccia.
Glielo spiegava e, se lui non capiva, glielo gridava, si arrabbiava e lo insultava. Almeno due volte lui credette che tra loro fosse finita. In quei casi non dormiva due o tre notti, ma poi il telefono squillava e scopriva che non solo tra loro non era finita, ma che lui stava davvero cambiando, che ora vedeva le cose in modo diverso. Che era più forte.
Ormai vedeva molto poco gli altri ragazzi e, quando li rivedeva, non gli sembravano più tanto ganzi come gli erano sembrati prima. Non che non ridessero più di lui, ma a lui non importava più tanto. Grazie a lei, si era laureato e aveva cominciato a lavorare, e con successo, perché lei gli aveva insegnato a stare in mezzo alla gente.
Come aveva potuto farle quello che le aveva fatto in seguito? Come aveva potuto portarla ad aprire i rubinetti del gas della cucina?


Cos’erano quelle sagome deformi che sembravano danzare, quei suoni inarticolati, quasi ridicoli?  La donna-larva si guardò intorno perplessa, e decise che quel mondo era molto strano. Fatto di una sostanza evanescente, era un mondo spettrale, quasi inesistente. Non riusciva a capire come facesse a stare insieme e a funzionare, a non dissolversi e a non crollare. Lei invece era molto solida e concreta, pensò guardando e toccando le proprie mani e le proprie braccia. I suoi piedi posavano su una superficie solida e dura, e questa era l’altra cosa strana.
Quel mondo aveva un alto e un basso, il basso era costituito dalla superficie su cui stava posando i piedi, l’alto da una distesa di vuoto azzurro al cui centro brillava il sole, e i movimenti degli abitanti di quel mondo erano limitati da quell’alto e da quel basso.
La donna-larva mosse alcuni passi e si accorse che in questo modo poteva modificare la sua posizione rispetto a ciò che la circondava. Anzi, era l’unico modo, ed era faticoso, ma doveva farlo se voleva raggiungere l’unico scopo per cui aveva superato la barriera.
La donna-larva era uscita dalla mente della donna che in quel momento era collegata al respiratore automatico nel reparto rianimazione, e della donna aveva tutti i ricordi, e alcuni di quei ricordi erano associati a dolore.
Man mano che si spostava, si accorse che i contorni delle cose diventavano lentamente, molto lentamente, più definiti, e che i colori diventavano più nitidi. Ora poteva distinguere le persone dagli oggetti inanimati e dagli edifici, e provò a identificarli in base ai ricordi e alle nozioni che aveva dentro di sé. Un’edicola, un autobus, i balconi, i portici.
La donna-larva vedeva tutto avvolto da una nebbia, come se tutto dovesse sparire da un momento all’altro com’era apparso. Ma era in grado di capire quanto bastava per muoversi in quel mondo, ed era ciò che in quel momento le bastava. Allungò una mano verso una colonna e non incontrò alcuna resistenza. Non poteva ancora agire in questo mondo, non poteva ancora influenzarlo, ma sarebbe stato solo questione di tempo. Molto presto sarebbe stata capace di distruggere e uccidere.
Mentre si allontanava dall’edicola con la sua rivista in mano, la donna grassa fu colpita da un odore di marcio e di dolciastro, come di un gatto morto o di verdura andata a male, ma non c’era nei paraggi niente del genere, e nemmeno un tombino scoperto.


Fabio aveva sentito parlare di coma profondo fino a quel momento solo nei gialli d’ambiente ospedaliero e in qualche film horror, da Richard Burton nel “Tocco della medusa” a un vecchio film australiano di cui non ricordava il titolo. Ma ora era tutto diverso, mentre sedeva di fronte al dottor Saraceni e all’anestesista rianimatore professor Pietro Salza, su tre sedie tubolari di metallo nell’ufficio della caposala.
“Come il dottor Saraceni le ha detto per telefono, siamo spiacenti di doverla informare che, nonostante tutto lo sforzo della nostra équipe e le tecniche di rianimazione di questo reparto, sua moglie è deceduta alle tre di stamattina.” Salza dimostrava più dei suoi sessant’anni, non aveva quasi più capelli e ogni tanto ansimava, ma il suo tono aveva la sicurezza di chi conosce perfettamente l’argomento di cui parla.
“Deceduta?” Fabio impallidì e sobbalzò sulla sedia. “Ma… l’ho vista poco fa, arrivo dalla sua camera... non ha ripreso conoscenza, è vero, ma... lei respira!”
“Solo perché è collegata al respiratore automatico, signor Rinaldi, ma l’elettroencefalogramma è piatto. Non c’è più attività elettrica nel cervello di sua moglie. Alle tre di stamattina é sopravvenuta la morte cerebrale.”
“Morte cerebrale?! Cosa… cosa intendete? E’ morta o no? Una persona o è morta o è viva, o sbaglio?”
Salza si protese verso Fabio e gli posò una mano sulla spalla. L’incredulità. e il rifiuto sono sempre le prime reazioni dei famigliari. “Signor Rinaldi, quando é morto il cervello si è morti. La morte cerebrale è la vera morte. Una volta si considerava morta una persona quando si fermavano il cuore e i polmoni perché l’ossigeno non entrava più nel corpo o, una volta entrato, non raggiungeva più i vari organi, tra cui il cervello. Non c’era modo di riattivare la respirazione e la circolazione una volta che si fermavano, e non c’era modo di misurare l’attività del cervello. Ora invece é possibile, a volte, riattivare il cuore prima che il suo arresto provochi l’arresto del cervello.”
“E quindi?”
“Se invece si ferma il cervello, signor Rinaldi, non esiste sistema al mondo per riattivarlo. Inoltre, oggi é possibile misurare l’attività del cervello. Quindi oggi si considera morta una persona quando si ferma il cervello.”
“Che significa ‘si considera’?”
“D’accordo. Si è morti quando si ferma il cervello.”
“Ha detto che una volta si considerava morta una persona quando si fermava il cuore e non respirava più Se invece la morte é quando si ferma il cervello, allora quelle persone in realtà erano ancora vive?”
“No, be’... in base ai criteri di allora, diciamo che erano morte...”
“Se erano morte, allora significa che la medicina, riattivando  il cuore, oggi riesce addirittura a resuscitare i morti?”
“Non intendevo... noi...”
“O si credevano morte delle persone che invece erano vive, oppure erano davvero morte e oggi é possibile resuscitare i morti.”
“Senta, se quelle persone erano vive, sono comunque morte pochi minuti dopo, perché‚ quando il cuore non invia sangue...”
“Il cervello è gravemente danneggiato, questo lo capisco da me. Benissimo, questo problema per mia moglie non c’è, allora, perché il suo cuore batte e il suo cervello continua a ricevere ossigeno.”
Salza e Saraceni si guardarono. L’impresa si stava rivelando più difficile del previsto, ma alla fine il famigliare si rassegna e accetta la triste realtà. Succede sempre. La caposala fece scorrere il vetro sopra la scrivania per rispondere alla richiesta d’informazione di un parente.  
“Il cervello è l’organo che regola l’intero organismo, senza il cervello il nostro corpo non è più un organismo, la persona non esiste più. E inoltre” Salza fece una pausa e fissò l’uomo pallido davanti a sé, “quando si ferma non si riattiverà mai più. Non esiste tecnica per riattivarlo e non esisterà mai, perché i neuroni... le cellule del cervello... una volta distrutte non si riproducono più, se per assurdo si riproducessero, non sarebbero più le stesse, non conterrebbero gli stessi ricordi, non sarebbe la stessa persona. Il cervello non si cicatrizza e non si trapianta, signor Rinaldi.”
“Vi sbagliate!” Fabio alzò la voce, per abbassarla subito imbarazzato.
“Scusate, io non sono un medico, ma ho letto che ci sono stati casi di persone che si sono svegliate dopo molti mesi o molti anni. Una donna si é svegliata poco dopo che i parenti avevano ottenuto dal giudice il permesso di interrompere le cure.”
Pietro Salza sospirò e, ancora una volta, maledisse mentalmente i giornalisti che, del tutto profani dei termini clinici, sparavano in prima pagina quei titoli a sensazione della serie “Torna dalla morte!” o “Si sveglia dopo vent’anni!” Che ne sapevano i giornalisti di ipotalamo, mesencefalo o neocorteccia? Forse i giornalisti sapevano distinguere i quattro livelli del coma? Conoscevano la differenza tra morte cerebrale, morte clinica e morte citologica?
“Signor Rinaldi, non è proprio così.” riprese Salza “I francesi lo chiamano coma dépassé, cioè stato oltre il coma, e questo confonde le idee. Il coma dépassé é sinonimo di morte. Nessuno si é mai risvegliato dal coma dépassé. Mai. I casi di cui lei parla erano di coma apallico, oppure erano di stato  vegetativo.”
Fabio non ascoltava più-, scuoteva la testa come per scacciare un oggetto molesto.
“Se si é morti solo quando il cervello é fermo, vorrebbe dire che un morto può avere il cuore che batte e magari anche respirare?” Gli sembrava ridicolo già mentre lo diceva. Di chi stavano parlando, di sua moglie o del conte Dracula? Erano forse tutti impazziti?
“La respirazione artificiale, con il supporto del respiratore automatico, può continuare praticamente all’infinito. Quanto al cuore, é una pompa, un organo quasi meccanico, e continua a funzionare per il suo automatismo intrinseco. Ma non per molto. Se il cervello si ferma prima del cuore, il cuore  si ferma comunque nel giro di poche ore o pochi giorni.”
Salza ritenne inutile citare le cifre ma ricordava che, in una ricerca danese del 1973, su 63  pazienti ventilati artificialmente dopo la morte cerebrale, 12 ebbero l’arresto cardiaco entro 12 ore, 10 tra le 12 e le 24 ore, 16 tra le 24 e le 72 ore e, infine, 8 tra le 72 e le 211 ore.
“Le persone in stato vegetativo possono aprire gli occhi, sbadigliano e deglutiscono, hanno il ciclo sonno-veglia. Non sono sicuramente morte. Il più lungo caso documentato é quello di Elaine Esposito, entrata in questo stato il 6 agosto 1941 e morta trentasette anni dopo, il 25 novembre 1978.”
“Mia moglie potrebbe rimanere nello stato in cui é ora trentasette anni, prima di morire?” chiese Fabio. Si era ricordato che quel vecchio film australiano con il tipo in coma si intitolava “Patrick”.
“No, signor Rinaldi, sua moglie non rimane in nessuno stato prima di morire, perché é già morta.”
“Sarà morto il suo cervello, secondo quanto mi dite. Ma non é morta lei. Lei respira. Il suo cuore batte.”
Salza e Saraceni si scambiarono un’occhiata significativa. Com’era possibile convincere qualcuno che la persona amata é morta, quando la vedono respirare e ne tocca la pelle rosea, calda e morbida? Saraceni fece un ultimo tentativo.
“Sua moglie respira solo perché‚ il respiratore automatico immette aria nel suo corpo, ma sta ventilando un corpo morto, un involucro vuoto.”
“Appunto, ho capito benissimo. Quella macchina la tiene in vita. Se la stacchiamo, commettiamo un omicidio.”


Viviana Orsellini uscì dalla vasca Jacuzzi per l’idromassaggio e, avvolta nell’accappatoio, accese l’asciugacapelli e iniziò la laboriosa scelta della tonalità di nuance e di mascara.
Davanti allo specchio appannato dal vapore aveva modo di riflettere. Non poteva rinunciare proprio ora, dopo aver tanto atteso. Aveva avuto la saggezza di non mescolarsi alle tante oche che avevano fatto il filo al bel maturo tanto giovanile e, soprattutto, tanto ricco.
Lei invece aveva recitato alla perfezione la parte della donna virtuosa, elegante e di buon gusto cogliendo al volo ogni occasione di destare il suo interesse, una citazione colta, un commento acuto. Aveva addirittura respinto una sua proposta esplicita, facendogli però capire che lei puntava alla qualità che dura e non all’avventura passeggera.
Viviana aveva puntato al divorzio, intendiamoci, nulla di tanto drastico come la morte. Non aveva nessuna intenzione di imitare gli “amanti diabolici” di tanti romanzi e film. Esistono anche nella realtà, ma quelli vengono invariabilmente scoperti e il loro amore, guarda caso, non sopravvive mai all’aula della Corte d’Assise e all’ergastolo.
Non che Viviana si sarebbe fermata di fronte a questa eventualità, ovviamente. Era fermamente convinta che la fortuna non esiste e che chi non ottiene ciò che desidera é solo perché‚ non é disposto a tutto per ottenerlo, cioè non lo desidera abbastanza. Quindi é colpa solo sua e di nessun altro, e tanto meno della sfortuna.
Aveva avuto la prova di questa legge della vita a dodici anni quando i suoi genitori, nella loro disperazione, non si erano domandati come fosse finito il suo cuscino dentro la culla dove suo fratello Daniele di quattro mesi era stato trovato morto. Il pediatra aveva parlato di “crisi di apnea” e di “mancata regolazione delle funzioni spontanee”, le morti in culla erano ancora una triste realtà anche se rara, e un mistero della scienza medica, e nessuno aveva compiuto altri accertamenti.
Ma la disperazione dei signori Orsellini era stata attenuata dall’affetto della figlia sopravvissuta che avrebbe dato loro tante soddisfazioni a scuola prima e al lavoro poi, soprattutto dopo che non aveva più dovuto fare la baby-sitter non pagata e sorbirsi i pianti e i capricci di quella piccola peste, e concentrarsi finalmente sui suoi interessi.
Viviana non aveva dimenticato l’episodio di cui, ovviamente, era l’unica a essere a conoscenza. In seguito non aveva più fatto nulla di analogo, ma solo perché‚ non ne aveva avuto l’occasione e la necessità come, ne era sicura, tanti che apparentemente non farebbero male alla classica mosca. Aveva sempre ottenuto quello che voleva con armi più sottili e meno rischiose. Una semplice questione di costi e vantaggi.
Finito il liceo, aveva capito che c’era una sola attività che non sarebbe tramontata mai perché é legata a tutte le altre, vi entra e le condiziona, ed é l’amministrazione del denaro. Tutti hanno bisogno di denaro, lo chiedono e lo offrono.
Viviana si era iscritta a Economia e Commercio, si era specializzata a Oxford, si era impadronita di concetti come tasso di sconto, buoni d’investimento, obbligazioni privilegiate, vendita allo scoperto e divise pregiate, aveva stretto rapporti con banche, società finanziarie e agenzie di cambio.
Cioè, aveva stretto rapporti con uomini che contavano nelle banche, nelle società finanziarie e nelle agenzie di cambio, uomini che apprezzavano la sua competenza ma, soprattutto, apprezzavano altre sue dote prettamente femminili. Per questo curava tanto la linea e il look, considerava i soldi spesi in cosmesi e palestra come un investimento. Alcuni uomini le avevano fornito volentieri informazioni interessanti, altre informazioni le aveva carpite senza che se ne rendessero conto. Qualcuno, i meno giovani, sposati con figli, era stato necessario ricattarlo.
Viviana aveva comprato e venduto azioni e titoli, investito e disinvestito, era  entrata e uscita in diverse società e compagnie, senza mai legarsi a nessuna. In questo modo aveva accumulato un discreto capitale e aveva creduto di essere pronta al colpo grosso.
Ma c’era una cosa di cui (grave errore!) non aveva tenuto conto: gli uomini che le fornivano le informazioni erano, appunto, uomini, quindi non erano infallibili. Nel 1987 c’era stato il crollo di Wall Street, lei aveva perso quasi tutto il suo capitale e quasi tutti i suoi contatti si erano bruscamente interrotti. A quel punto le serviva con urgenza qualcos’altro, magari su scala ridotta ma solido e sicuro.
Dai pochi contatti rimasti aveva appreso che un importante operatore franco-tedesco aveva deciso di entrare nel mercato italiano e stava prendendo in considerazione l’ipotesi della fusione con un partner italiano. La società. di Fabio Rinaldi e Ruggero Luzzatto era il principale candidato e un’importante banca era pronta a sostenere l’operazione. Insomma, Fabio era proprio un affare sia come socio che come marito.
Ma proprio ora che la moglie di Fabio si era finalmente tolta di mezzo, proprio ora che nulla più si frapponeva tra loro due, quello scemo si era fatto prendere dal senso di colpa. Riteneva di non essere stato un buon marito e voleva rimediare.
La fortuna e il futuro di Fabio sarebbero stata definitivamente assicurati dal nuovo partner franco-tedesco, ma bisognava che andasse a parlare a quella gente, che trattasse come solo lui sapeva fare, che concludesse l’affare della sua vita.
Invece no. Fabio passava tutto il suo tempo all’ospedale. Come se non bastasse, si sputtanava tutti i soldi in cure e farmaci completamente inutili e, alla fine della storia, lui sarebbe stato rovinato mentre sua moglie sarebbe stata esattamente com’era ora, cioè morta.  A Viviana non fregava niente se Fabio aveva fatto o no il bravo maritino quando lei era viva, ma la mandava in bestia che volesse farlo ora. Doveva provvedere.


La donna-larva salì un gradino dopo l’altro, poi scivolò dentro l’alloggio. Era quello giusto, lo sapeva, in quel luogo si trovava Fabio, la persona che lei odiava e che voleva uccidere. Non solo ucciderla, voleva divorarla, farla a pezzi, farla sparire. Osservò i mobili e gli oggetti, il televisore, lo stereo, il telefono.
La donna-larva si rese conto che quegli oggetti, quel mondo, non erano ancora diventati abbastanza  reali, non erano ancora usciti completamente dal nulla dove si erano trovati fino a quel momento. Se ne rendeva conto perché gli abitanti di quel mondo continuavano a non vederla e lei continuava a vedere loro come attraverso la nebbia. Questo impediva a lei, che invece era molto reale e concreta, di fare ciò che voleva fare.
Ma ora, se si concentrava, riusciva a sentire il contatto con gli oggetti, addirittura a sentire se erano caldi o freddi, lisci o ruvidi, anche se non ancora ad afferrarli e sollevarli. Quell’uomo avrebbe vissuto ancora qualche ora, al massimo qualche giorno, e poi quel mondo sarebbe stato completamente reale.
Il telefono squillò. Fabio uscì da una porta, un pullover di cachemire sbottonato su una camicia stropicciata, la barba di tre giorni, e sollevò il ricevitore.
“Chi é?” mormorò, ma riconobbe subito la voce.
“Grazie a Dio rispondi, finalmente. Ho già. provato molte volte. Se ti importuno ti prego di dirmelo, ma ho pensato...”
“No, Viviana, non mi importuni. Ti ringrazio di avermi chiamato, avevo staccato il telefono e solo oggi...”
Viviana! La donna-larva riconobbe quel nome e associò anche quello a odio e dolore, forse anche più di prima. Odio giustificato, a quanto pare, visto che quella donna aveva il coraggio di telefonare a Fabio subito dopo la morte di sua moglie.
“Forse sono invadente, Fabio, ma quando si vuole bene a una persona é un rischio che si deve correre. Desidero vederti, e penso che anche a te farebbe bene.”
Fabio rimase in silenzio alcuni lunghi minuti, e allora lei insisté‚: “Fabio... sei ancora in linea... allora posso...”
“Sì, sì, certo... non vorrei vedere nessun altro che te. Ma non oggi...”
“Domani, allora?”
La donna-larva non capì il significato di ogni singola parola, ma afferrò il senso generale della conversazione, e questo le riuscì quasi insopportabile, le provocò altro dolore e allora urlò. Dall’altra parte del filo Viviana sentì l’urlo che le mozzò il respiro e le gelò il sangue nelle vene. Era un urlo umano, ma era attraversato da un’intonazione innaturale che gli conferiva qualcosa di terrificante.
“Fabio! Cos’è stato?!” gridò.
Nessuna risposta giunse dal ricevitore, Viviana gridò ancora tre volte e finalmente sentì Fabio che rispondeva.
“L’hai sentito anche tu... Non lo so... non so cos’è stato...”
“Fabio, io... “
“D’accordo, ci vediamo domani... Domani, sì... Richiamami domani a quest’ora.” e Fabio riattaccò.
Posato il ricevitore, Fabio si guardò intorno. L’urlo era venuto da vicinissimo, da pochi metri, solo al di là di quella porta socchiusa, dal salotto. Un urlo che, nella sua innaturalità, aveva qualcosa di famigliare, anche se sapeva essere impossibile. Si appoggiò allo stipite e trattenne il respiro. Niente, ora il silenzio era totale. Infine si decise ad affacciarsi al salotto.
Il divano era attraversato da un numero incredibile di squarci che si incrociavano e si sovrapponevano e avevano rovesciato e rivoltato l’imbottitura, in senso sia orizzontale che verticale.
Ma nel salotto non c’era nessuno. Solo quell’odore di marcio e di dolciastro...


Edoardo Ferragamo, direttore sanitario dell’ospedale San Domenico Savio, non credeva ai suoi occhi. Era seduto nell’ufficio della direzione e di fronte a lui erano seduti Fabio Rinaldi e un uomo in gessato grigio che si era presentato come avvocato Matteo Comazzi. Amedeo Saraceni era in piedi accanto alla finestra che si affacciava sul parcheggio dei taxi e indossava ancora il camice bianco sbottonato. La lettera che l’avvocato Comazzi aveva presentato e che Ferragamo aveva appena finito di leggere era la formale diffida dalla disattivazione del respiratore automatico collegato alla signora Rinaldi.
“Avvocato, ha spiegato al suo cliente che la legge italiana stabilisce il termine di sei ore dopo l’arresto del cervello per la diagnosi di...”
“Dottore, qui stiamo parlando di vita e di morte, e i sentimenti del mio cliente, che io posso condividere o meno...” l’avvocato si interruppe. Da sei anni era l’avvocato della società di Fabio Rinaldi e Ruggero Luzzato e non aveva potuto rifiutare quell’incarico, tanto lontano dalle cause di carattere contrattuale e fiscale a cui era abituato. “Insomma, la vita e la morte é qualcosa che non interessa solo la persona in questione ma anche i suoi cari, il loro modo di sentire. Non é cosa che si possa risolvere con un articolo di legge.”
Era sera, l’ufficio era illuminato da una lampada da tavola coperta da un elegante paralume. Una parete era interamente occupata da scaffali di mogano carichi di pesanti libri con le copertine di pelle e cuoio. Il pavimento era coperto da un morbido tappeto.
“Vi rendete conto, spero, che i posti nel reparto rianimazione sono limitati, e lo stesso negli altri ospedali della città. La moglie del suo cliente occupa un posto e immobilizza attrezzature che potrebbero salvare la vita ad altri pazienti...”
“Andiamo, dottor Ferragamo.” L’avvocato sorrise amaramente. “L’oggetto del contendere é proprio la diagnosi di morte della moglie del mio cliente. Ammetterà anche lei l’assurdità di salvare la vita a qualcuno uccidendo qualcun altro.”
“Come si permette...”
“Scusi, non intendevo offenderla...” disse l’avvocato. “Ma la definizione di morte é cambiata molte volte nel corso dei secoli, e tuttora é diversa da Paese a Paese. I suoi colleghi inglesi, ad esempio, contestano l’infallibilità dell’elettroencefalogramma, che non dimostra l’assenza di flusso sanguigno nel cervello. Nel 1982 ci fu una causa a Las Vegas dove il pugile coreano Duk Koo Kim riportò una lesione al cervello in uno sfortunato incontro, fu dichiarato morto per la legge americana, ma era ancora vivo secondo la legge coreana.”
L’avvocato Comazzi si era coscienziosamente documentato per assolvere al meglio il  suo insolito incarico, ma questo non gli impediva di provare un profondo disagio. “Il punto in discussione é il confine tra la vita e la morte. Cioè, ai fini pratici, se la signora Rinaldi ha cessato oppure no di usufruire dei diritti di una persona viva e può essere trattata come un cadavere, e quindi essere seppellita o cremata.” L’avvocato fece una pausa. “Non é una cosa su cui possiamo permetterci errori.”
“Saraceni, ha sentito?” Il tono di Ferragamo era implorante. “Per favore, dica qualcosa! Abbiamo o non abbiamo la prova che la signora Rinaldi é morta?”
Saraceni non rispose subito. Gli era richiesta una prova che  non poteva fornire. Quell’avvocato aveva ragione sul fatto che il punto non era nemmeno l’elettroencefalogramma piatto. In realtà, la diagnosi di morte non si basa mai solo sull’elettroencefalogramma, che spesso non é nemmeno eseguito, ma su una serie di test, sulla competenza e l’esperienza del medico e sulla prassi e la tradizione ospedaliera.
L’elettroencefalogramma serve soprattutto a tranquillizzare i famigliari. Quasi tutti i profani nutrono una fede mistica in una macchina che registri il confine tra la vita e la morte infallibilmente come il termometro misura la temperatura, al di là dell’errore umano, delle conquiste della scienza e dell’oscillare delle leggi, delle culture e delle religioni. Ma una macchina del genere non esiste.  
“Cosa chiedete, insomma? L’angiografia, forse?” domandò Saraceni avvicinandosi agli uomini seduti.
“Sì, stiamo valutando la possibilità di farla eseguire in una clinica privata a nostre spese, e poi ne riparleremo.”
Saraceni sapeva benissimo che, qualunque risultato avesse dato l’angiografia, l’esame per mezzo di traccianti radioattivi del flusso di sangue nel cervello, non sarebbe stato ugualmente conclusivo.
Decise di compiere un ultimo tentativo, prese un foglio da una cartella di pelle e cominciò a leggere. “Le faccio notare che lo stesso termine di sei ore” Saraceni cominciò a leggere “vale in Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia e Gran Bretagna.”
Fabio ascoltò in silenzio, poi afferrò il foglio e lo fissò, i lineamenti contratti.
“Come vede, sei ore è un termine praticamente quasi universale. E’ previsto un termine più lungo di dodici ore per i bambini da uno a cinque anni, perché può essere più difficile vedere i segni di ripresa, e addirittura di ventiquattr’ore per quelli con meno di un anno. Insomma, se lei volesse...” Fabio per la prima volta parlò, sempre fissando il foglio.
“Però in Gran Bretagna il certificato di morte dev’essere firmato da un solo medico, in Irlanda da due medici, in Olanda da tre, in Turchia da quattro...”
“Che significa...”
“Signori” ora Fabio fissò i due medici smarriti “quante persone dichiarate morte dall’unico medico inglese sarebbero state salvate dal secondo medico irlandese? Quante persone dichiarate morte dai tre medici olandesi sarebbero state salvate dal quarto medico turco?”  


Viviana si rese subito conto che doveva fare appello a tutta la sua capacità di persuasione, e l’esito era tutt’altro che scontato perché era un argomento su cui era praticamente impossibile essere obiettivi. Dopo essersi tolta il blazer di pitone e il cappello di feltro a tesa larga, aveva accettato il succo di frutta e si era seduta nella poltrona del salotto che aveva sostituito il divano. Chissà perché, pensò lei, il vecchio divano non era male. Accavallò le gambe, assunse un’aria contrita e si predispose ad ascoltare il discorso infervorato di Fabio.
“Vogliono staccare il respiratore automatico, capisci? Ma io non lo permetterò. Forse ci sarà una causa, non m’interessa, non gli permetterò di ucciderla!”
 Tutti i giorni Fabio pettinava sua moglie, la lavava e stava lunghe ore a parlarle. Le raccontava la sua giornata, i suoi problemi, i suoi pensieri.
“Ma il suo elettroencefalogramma é sempre piatto, Fabio. Non può riprendere conoscenza e, se anche la riprendesse, il suo cervello sarebbe gravemente danneggiato. Sarebbe un... un...”
Un vegetale vivente, stava per dire, più o meno come già era prima. Ma si trattenne e sperò che lui non le leggesse il pensiero.  
“Anche questa è un’ipotesi. Tutto é un’ipotesi.” Il tono di Fabio era deciso. “Ho letto le testimonianze di persone che sono ritornate dalla morte e hanno raccontato la loro esperienza.”
Ancora quella roba della vita oltre la vita! Viviana aveva letto di quelle persone che raccontavano di aver visto dall’esterno il proprio corpo, di averlo visto dall’alto mentre i medici vi si affannavano, che raccontavano di aver percorso un tunnel buio con una luce in fondo, di aver incontrato parenti morti da tempo che dicevano loro che non era ancora il momento e le invitavano a tornare indietro.
Gli scettici sostenevano che il tunnel buio con la luce in fondo altri non era che l’esperienza della nascita che quelle persone in coma avevano rivissuto, e i credenti replicavano che l’avevano visto anche a coloro che erano nati con il parto cesareo.
Allora gli scettici dicevano che la luce in fondo al tunnel altri non era che la lampadina che il medico gli aveva acceso davanti alla pupilla. Inoltre i moribondi avrebbero percepito a livello inconscio le parole  pronunciate e le operazioni eseguite nella camera e per questo, una volta ripresa conoscenza, erano in grado di riferirle esattamente. Ma i credenti replicavano che quelle persone riferivano esattamente anche ciò che era avvenuto sul letto accanto, da cui il loro letto era diviso da un separé, o addirittura in un’altra camera.
In conclusione, nessuno sapeva niente.
“Ma l’elettroencefalogramma di quelle persone é rimasto piatto solo pochi secondi, Fabio! Il suo é piatto da più di...”
“Non é quello il punto. Il punto é che ‘dopo’ c’è qualcosa!”
“Fabio, se dopo c’è qualcosa, cosa c’è dopo, io onestamente non lo so. Ma resta il fatto che, qualunque cosa ci sia, dalla morte non si torna. La morte é la fine della vita. La fine di tutto. Il punto di non ritorno. L’interruzione totale e irreversibile.  Il solo fatto che quelle persone si siano risvegliate é la prova che non erano morte.”
“Quello é il trucco! Interruzione totale e irreversibile! Totale é chiaro cosa significa, ma che significa irreversibile? Quando é irreversibile?”
Viviana aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse subito. Non c’era risposta possibile davanti a un’ossessione irrazionale. Fabio le afferrò una mano e gliela strinse mentre abbassava la voce.
“Viviana, tu sei la mia migliore amica. Sei l’unica persona abbastanza intelligente e sensibile da capirmi. Cosa vuoi che capisca Ruggero? Per lui esiste solo il lavoro. Con te invece riesco a parlare di tutto, anche di... questo.” Tacque, si passò una mano sul volto, poi continuò.
“Forse davvero a lei non serve più nulla. Ma per me é molto importante. Se esiste una minima remota possibilità che lei ritorni, che noi due abbiamo ancora una possibilità…” esitò di nuovo “Vuoi esserci vicina in questi momenti? Vuoi aiutarci a tornare insieme?”
Questo era troppo. Viviana capì di essere stata sconfitta. Un affare andato male. Capita. L’importante è non morirci sopra (tanto per restare in argomento) e pensare al futuro. Se lui voleva buttare via il resto della sua vita, era assurdo che lei buttasse la propria nel vano tentativo di dissuaderlo. Biascicando un “Telefonami quando vuoi” posò il bicchiere, si alzò, afferrò il blazer e il cappello, si lisciò la gonna e si diresse alla porta.


Roberta si guardò intorno. Vide le lenzuola stese che si gonfiavano al vento, i fiori nel vaso sul davanzale della finestra della casa di mattoni rossi a due piani, la scala esterna che portava all’ingresso, la millecento ammaccata parcheggiata accanto alla scala. Spinse lo sguardo più lontano e vide lo stradone, il cartellone pubblicitario con il grande e buffo omino fatto di pneumatici, altre case, un furgone parcheggiato e, proprio in fondo, il cantiere di una casa in costruzione con una grande gru, e fu moderatamente soddisfatta di ciò che vedeva.
Era la casa dove era nata e aveva vissuto con i suoi genitori finché non era stata abbattuta, e allora si erano trasferiti nella metropoli dove l’avevano iscritta all’istituto commerciale. Credeva che non avrebbe mai più rivisto quella casa con il cancelletto, quella  scala che portava al primo piano e quel vaso di fiori sul davanzale, e invece ora era tutto lì.
Ma c’era ancora qualcosa di profondamente sbagliato in tutto quello, e infine capì cosa. Era tutto immobile e silenzioso. Le lenzuola erano gonfie come se soffiasse il vento, ma non c’era vento e le lenzuola erano bloccate a mezz’aria sempre nella stessa posizione. Guardò meglio le auto sullo stradone e si accorse che non sfrecciavano, erano immobili come se gli automobilisti le avessero abbandonate, anche se erano tutte allineate nel senso giusto di marcia come se corressero.
Era come una gigantesca fotografia, ma una fotografia in tre dimensioni perché Roberta poteva attraversarla e toccarla, i suoi piedi calpestarono la ghiaia, la sua mano spinse il cancelletto che ruotò cigolando. Be’, il rumore c’era, era già qualcosa, più tardi con calma avrebbe provveduto anche al resto.
Roberta salì la scala e dall’interno udì uscire una musica che veniva da molti anni prima. Spinse la porta d’ingresso, che  si aprì su un’ampia cucina. La musica usciva da una gigantesca radio a valvole, con le rotonde manopole sul davanti della scatola di legno che troneggiava sul ripiano di una massiccia dispensa. La musica, ora lo ricordava, era quella di “Bandiera gialla”, che in quel momento si interruppe per lasciare il posto all’allegra voce del conduttore.
Al centro della cucina c’era un tavolo coperto da una tovaglia a fiori, e sulla tovaglia c’erano una zuccheriera, una scatola di biscotti e due tazze su cui erano dipinti un buffo topo e un buffo gatto. Sul fornello un filo di fumo stava uscendo dalla teiera, e accanto al fornello era in piedi una donna voltata di spalle che poco dopo spense il fornello, afferrò la teiera e, con la teiera in mano, cominciò lentamente a girarsi.
Roberta aprì la bocca per gridare, ma nessun suono uscì dalla sua bocca. La persona che cominciava a versare il tè nelle tazze era uguale a lei, era la sua copia vivente. E le stava sorridendo.
“Siediti, Roberta, e prendiamo il tè.”
Roberta obbedì, anche l’altra se stessa si sedette, prese un biscotto dalla scatola e la invitò con lo sguardo a imitarla. Roberta rispose con un sorriso forzato.
“Sono biscotti fatti in casa, quelli che ti piacciono tanto. Quanto zucchero? Ah sì, un cucchiaio e mezzo.”
Il sapore del tè era vero, quello dei biscotti era vero. La persona che le sedeva di fronte non era proprio la sua copia esatta, era lei di molti anni più giovane, dimostrava quattordici anni, al massimo sedici. Ora Roberta poteva notare i capelli più folti e lucenti, la pelle più liscia e morbida e, soprattutto, gli occhi attenti, maliziosi e sbarazzini. Che differenza con i suoi capelli che non sembravano quasi più nemmeno biondi!
La voce era squillante e allegra, e le comunicava una sensazione rassicurante di conforto e di complicità. “Cesare, il figlio del vicino, é di nuovo passato con il Ciao facendo finta di passare per caso. Ha una cotta per te, e crede che non lo guardi solo perché suo padre é un muratore.”  
“Non é per quello!” rispose istintivamente Roberta.
“Oh, lo so, Roberta.” l’altra se stessa si interruppe con una risatina che Roberta riconobbe subito. Era una risatina che veniva da vent’anni indietro nel tempo. “E’ proprio lui che non ti piace. Lui é il tipo che piacerebbe a una smorfiosa come Barbara. A proposito... Ho avuto il biglietto per il concerto dei Santana di domenica prossima.”
“Mitico! Ma sono paurosamente indietro con biologia! Papà non mi lascerà mai!”
“Gianluca ha gli appunti, e te li darà Credo che anche lui abbia una cotta per te, e lui é tutta un’altra cosa. Non trovi?”
“Puoi dirlo! Ma non credo proprio...”
Le compagne di scuola, i litigi, i pianti, le risate. E poi gli sforzi per alzarsi presto il mattino, le corse per prendere al volo il pullman, le laboriose trattative con mamma e papà per uscire la sera, i regali di compleanno, le telefonate fiume per confidarsi l’ultimo pettegolezzo, i romanzi letti di nascosto sotto il banco che poi venivano scambiati con le amiche divise tra le amanti della fuga e della trasgressione, che andavano matte per Jack Kerouac, e le intimiste che preferivano Jean-Paul Sartre. A lei era piaciuto molto “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garçia Marquez, soprattutto dove Josè Arcadio Buendìa riceve tutte le notti la visita di Prudencio Aguilar che ha ucciso in duello per amore di Ursula.
Roberta era tornata a casa. Era tornata al periodo più felice della sua vita, quello delle promesse, dei progetti, dei sogni. Ma sapeva che non era vero, non poteva essere vero. Era un’assurda simulazione allestita da un diabolico burattinaio, come aveva già sospettato vedendo le lenzuola stese immobili.
Diabolico? Forse quello era l’inferno, forse era il diavolo in persona che le stava offrendo il tè e i biscotti, che le stava parlando del concerto dei Santana. Ma Roberta non credeva al diavolo né all’inferno. Non sapeva esattamente cosa credeva che ci fosse dopo la morte, ma certo niente di tanto complicato. Ma allora... Fece forza a se stessa e lo chiese.
“Chi sei?”
“Sono una parte di te, Roberta. Una componente della tua personalità Una delle tante. Prima, dall’altra parte, eravamo tutte unite ma ora, da questa parte, siamo divise.”
“Allora... é questo che succede ‘dopo’?”
“E’ quello che é successo a te.  A ognuno succede qualcosa di diverso, siamo tutti diversi prima e lo siamo anche dopo. A molti, quando muoiono, non succede proprio niente.”
“Ma... dove ci troviamo?”
“Dove ci troviamo? Non so come si chiama. Siamo nella tua mente... nei tuoi sogni... Dal punto di vista dell’altra parte, possiamo dire che questo é il paese dei fantasmi.”
Il paese dei fantasmi? Il paese dove si trovava anche Prudencio Aguilar, il personaggio di Gabriel Garçia Marquez che, dopo la morte, tutte le notti ritornava... Se era così, non era niente male. Se l’avesse saputo, sarebbe venuta molto prima. Avrebbe tagliato molto prima con i dubbi, le delusioni, i rimorsi, le incomprensioni, i rancori, le rinunce, i rimpianti delle cose mai fatte, i sogni infranti. Ma l’altra se stessa interruppe i suoi pensieri compiaciuti.
“Ma tu devi tornare dall’altra parte. Tu non sei ancora morta. Noi dobbiamo tornare insieme. Dobbiamo tornare a essere una.”
Il panico afferrò Roberta. Non voleva tornare indietro. Non voleva tornare nella piccola sala da pranzo a fissare un pranzo che nessuno avrebbe consumato. Non voleva rivedersi nello specchio tra l’attaccapanni e il portaombrelli dell’ingresso. Non voleva tornare alla fatica di vivere.
“Ma io non voglio! Io qui sto bene! Perché dovrei tornare? Voglio restare qui per sempre!”
“Non puoi. Tutto quello che vedi non esiste.” L’altra se stessa indicò con un ampio gesto la stanza e i mobili. Ora dalla grande radio veniva la voce di Caterina Caselli che cantava “Nessuno mi può giudicare”. “Non é come lo vedi. Tu gli hai dato quest’aspetto, tu hai creato il vaso di fiori, la radio, la teiera e tutto il resto per difenderti dalla realtà che é molto brutta e dolorosa.”
“Che importa se l’ho creato io?” continuò Roberta dopo una breve esitazione. “Ora c’è. C’è di nuovo, come una volta. Io ci sono di nuovo. E voglio rimanerci per sempre.”
L’altra se stessa abbassò gli occhi pieni di lacrime, come sotto il peso di un’insopportabile delusione, e Roberta sentì il bisogno di spiegare.
“Non voglio tornare da lui, dall’uomo che ho sposato, che mi ha fatto tanto male, che si é dimostrato tanto cattivo e stupido, che mi ha indotta a uccidermi!”
L’altra se stessa alzò di scatto gli occhi, di nuovo attenti e maliziosi. “Cosa c’entra lui?”


Viviana spinse il carrello tra le file di scaffali del supermercato. Come tutte le persone che vivono sole, hanno poco tempo e sempre fretta, si diresse al settore delle mini-confezioni già pronte. Non doveva dimenticare il risotto in busta e il caffè solubile. La signora grassa con il bambino per mano si scostò per lasciarla passare.
La donna-larva era di fronte a lei, anche se lei non la vedeva. L’essere uscito dalla mente della donna collegata al respiratore automatico nel reparto rianimazione ora vedeva e sentiva tutto distintamente. Quello strano mondo  era diventato completamente reale e concreto, e questa volta l’avrebbe fatto.
    Peggio per lui. Viviana gli dava al massimo sei mesi, poi Fabio avrebbe bussato alla porta di quegli imbroglioni con le sfere di cristallo, i tavolini danzanti e il pendolino che promettono di metterti in contatto con il caro estinto. Ognuno crede a quello che vuole credere, si disse Viviana, e la possibilità di comunicare con le persone amate che abbiamo perso é la cosa che, da millenni, vogliono tutti. Nella condizione mentale in cui l’aveva lasciato, Fabio avrebbe creduto a qualunque cosa gli avessero fatto vedere o sentire, avrebbe creduto di parlare davvero con la mogliettina. Viviana poteva lottare contro un’altra donna, ma non contro un avversario invincibile come il senso di colpa.
   E poi la moglie di Fabio non si era ammalata di cancro né era stata accoltellata da un maniaco né le era caduta una tegola in testa. Aveva scelto di morire e, ammesso che fossero vere tutte quelle cose deliranti che Fabio ripeteva a se stesso e agli altri, avrebbe dovuto rispettare la volontà della donna che era stata sua moglie. Lei aveva ottenuto quello che aveva voluto, perché intromettersi?
    Viviana arrivò alla cassa e cominciò ad allineare le confezioni sul nastro scorrevole. La commessa cominciò a battere lo scontrino. E allora la donna-larva agì.


Donna Clorinda posò lentamente e attentamente le carte dei tarocchi una accanto all’altro. La papessa con il matto era una buona accoppiata, la sapienza moderata dall’allegria, ma l’impiccato la preoccupava un po’, era la terza volta che usciva in due giorni. La fiamma dei bastoncini spandeva il profumo d’incenso nel piccolo ambiente della portineria. Senza alzare gli occhi chiese: “Entri pure, signor Rinaldi. Sono venti minuti che mi sta osservando da dietro quel vetro. Cosa posso fare  per lei?”
    Fabio non si domandò come la custode del palazzo avesse fatto a capire, senza girarsi, che lui era lì. Girò la maniglia, entrò e richiuse la porta della guardiola alle sue spalle. Aveva la barba di tre giorni, i capelli scomposti, e più nessuna traccia di lacca.
   “Si sieda, signor Rinaldi. Gradisce un caffè o preferisce qualcosa di più forte? Ho un ottimo Porto, io me ne faccio un goccio quando sono giù di corda.”
    Lui si sedette senza rispondere, e concentrò la sua attenzione sul giaccone che teneva in mano. Donna Clorinda posò il mazzo delle carte e, con sforzo, alzò la sua mole dalla sedia.
    “Ho capito. Vada per il Porto.” Aprì la vetrinetta, tirò fuori due bicchieri che posò sul tavolo, poi tirò fuori anche la bottiglia, la stappò e versò tre dita in entrambi i bicchieri.
    Fabio prese uno dei bicchieri, lo accostò alle labbra, ma si fermò e cominciò: “Lei... ho sentito dire... se non sbaglio...”
    “Io parlo con i morti. E’ questo che ha sentito?”
    “Questo, sì. Lei può... comunicare con l’aldilà, vero? Lei può mettere in contatto con persone che sono morte... con le anime... con gli spiriti...” Fabio si ascoltò pronunciare quelle parole che solo un mese prima lo avrebbero fatto ridere se le avesse sentite da qualcun altro. Avrebbe dovuto essere stupito, ma non lo era. Non poteva stupirsi e tanto meno vergognarsi, perché lo faceva per lei. L’unica cosa che riusciva a pensare  era che doveva avere la risposta.
   “E lei vorrebbe che la mettessi in contatto con lo spirito della signora? Lei pensa di avere delle cose da dirle o che la signora abbia delle cose da dire a lei?”
    “Potrebbe farlo? Lo farebbe per me?”
    “No, signor Rinaldi.” la risposta di donna Clorinda fu pronta.
    “No?! Se vuole che la paghi... mi dica quanto... la prego...”
    “A me si rivolgono persone che non accettano l’idea di non vedere mai più la loro madre, il loro figlio, la loro moglie o il loro marito. A queste persone io faccio sentire dei colpi su un tavolo o vedere dei bagliori in una stanza buia e dico loro che, anche se i corpi dei loro morti sono sotto terra o in cenere, anche se non esistono più, i loro spiriti li vedono e li sentono ancora, e loro sono felici, e mi pagano per questo. Ma non é vero. Non comunicano con gli spiriti perché non c’è nessuno spirito. Dei loro morti non c’è più nulla.”
    “Come, non c’è nulla... allora lei... li imbroglia?” chiese Fabio.
    “Si imbroglia qualcuno se gli si fa credere qualcosa che non é vero. Ma le persone che vengono da me credono già per conto loro. Vogliono che gli dica ciò che pensano già Mi pagano perché glielo dica, non vogliono sentire altro né lo crederebbero. Pagando, dimostrano l’amore per i loro cari. Sarebbero infelici e diffiderebbero, se non li facessi pagare.”
    Fabio questa volta bevve il Porto. Si aspettava che donna Clorinda rifiutasse di aiutarlo perché le era antipatico oppure che, per lo stesso motivo, gli chiedesse un prezzo esorbitante. Era pronto anche a essere deriso, a sentirsi rinfacciare le tante battute sarcastiche. Non si aspettava questo, non si aspettava quelle parole semplici, quel tono materno. Si rese conto che non aveva mai scambiato con quella donna più di cinque parole per volta.
    Donna Clorinda bevve a sua volta, poi posò il bicchiere, si abbassò in avanti, posò la mano sul braccio di Fabio e lo guardò negli occhi.
    “Signor Rinaldi, noi consideriamo naturale che la materia, tutte le cose materiali, con il tempo si deteriori e vada in rovina. Il nostro corpo, il mio, il suo” dicendo questo toccò sorridendo i propri massicci fianchi. “il corpo di tutti, é una cosa materiale e allora accettiamo, anche se non ci piace e ci terrorizza, che con il tempo si rovini e si distrugga. Lo aggiustiamo finché riusciamo ad aggiustarlo, come con le automobili e le lavatrici, fino al giorno in cui non si aggiusta più, fino al giorno in cui si ferma per sempre.”
 La donna fece un pausa, come per accertarsi che lui capisse bene cosa gli stava dicendo. Poi continuò.
      “Per la nostra personalità, per la nostra mente, é esattamente il contrario. Con il tempo impara, migliora, si rafforza, accumula esperienze, emozioni, sentimenti e ricordi. E allora non accettiamo che muoia proprio quando é più ricca, più forte, più piena. Non accettiamo che debba dipendere da una cosa materiale, fragile e brutta come il corpo, che non gli sopravviva. Ci sembra troppo assurdo, troppo ingiusto, e inventiamo qualcos’altro che ci sarebbe ‘dopo’. Ma é solo la nostra reazione, la nostra difesa, il nostro punto di vista di vivi. In realtà non é affatto vero che una cosa non possa esistere solo perché é assurda e ingiusta. Signor Rinaldi, esistono anche le cose assurde e ingiuste.”
    Fabio si alzò, posò la mano sulla maniglia della porta e la abbassò. Prima di uscire si voltò verso donna Clorinda che aveva di nuovo afferrato il mazzo dei tarocchi.
    “Perché non ha voluto fare lo stesso con me?” mormorò. “Perché non ha voluto dire anche a me quello che voglio sentirmi dire?”
    Donna Clorinda sospirò. “Perché non ne ha bisogno, signor Rinaldi. Lei ora prova un forte senso di colpa verso la signora e vuole dimostrare di amarla. A se stesso, non a lei che non c’è più.”
    “Ma io...”
    “Lei l’ha già dimostrato. Lei ha già dimostrato di amare sua moglie con il solo fatto di aver pregato l’eccentrica, svanita e antipatica donna Clorinda.”


Ora Roberta era su un marciapiede in un via stretta, accanto a un muretto alto un metro sormontato da un’inferriata, alta anch’essa un metro circa. Dietro l’inferriata c’era un’alta e folta siepe verde e, dietro la siepe, un’imponente ed elegante casa d’epoca, con una terrazza e un porticato.
    “Perché‚ mi hai portata qui?” chiese all’altra se stessa, e l’altra se stessa rise con il suo riso cristallino.
    “Non riconosci la casa di Gianfilippo?”
    Roberta si ricordò di Gianfilippo e di Elisabetta. Elisabetta era la più- brava della classe in educazione fisica, tutte la odiavano quando, in palestra, la vedevano volteggiare sul cavallo e sulle parallele, ma la perdonavano per la sua allegria e la sua simpatia quando, finita la lezione, andavano tutte insieme in pizzeria o al cinema. Elisabetta voleva andare alle Universiadi e poi... chissà! Tutto era possibile!
    Ma una mattina era uscita di casa all’alba in tuta da ginnastica per correre, era stata investita da un camion ed era rimasta paralizzata. Non per sempre, avrebbe dovuto subire una serie di interventi chirurgici, ma la lesione maggiore era stata quella alla sua anima.
    Elisabetta aveva smesso di mangiare, dormire e studiare, rifiutava le medicine, non voleva vedere nessuno e non rispondeva al telefono alle sue amiche.


Nella stretta via, dentro la Fiat ottocentocinquanta prestata da zio Alberto, c’erano Roberta e Viola, le due migliori amiche di Elisabetta. Viola si era ricordata che Elisabetta aveva un’altra passione, oltre all’atletica. I vecchi film, quelli in bianco e nero con l’immagine che sfarfalla e, all’interno dei vecchi film, le dive del passato, le donne fatali, Greta Garbo, Marlene Dietrich, Gloria Swanson. Elisabetta era incantata quando, in qualche rassegna cinematografica, vedeva quelle donne cosi diverse da lei, quegli sguardi penetranti, quelle labbra sdegnose e  quel passo maestoso con i loro guanti, i loro bocchini e le loro pellicce. Mentre lei vestiva jeans, felpe e giubbotti, le piaceva il gelato e la pizza e, soprattutto amava correre e saltare. Almeno fino al maledetto giorno dell’incidente.
    Viola aveva raccontato tutto questo a Roberta, e Roberta aveva avuto l’idea. Nell’ultima classe della sezione B c’era Gianfilippo che per un po’ le aveva fatto il filo, l’aveva invitata in quella casa d’epoca e, credendo di sbalordirla, le aveva mostrato la videoteca di suo padre che, di professione, faceva il critico cinematografico. E le aveva mostrato il magico apparecchio. Oggi i videoregistratori sono diffusi quasi come i frigoriferi, ci sono gli sconti e le offerte speciali, ma allora non era cosi, allora  possedevano un videoregistratore solo due categorie di persone, i critici cinematografici e i pornografi.
    Gianfilippo aveva invitato Roberta  due volte a vedere qualche film quando suo padre non c’era, si erano stravaccati sui cuscini sparsi sulla moquette, ma Roberta non era mai riuscita a vedere la fine del film perché‚ a Gianfilippo interessavano altre immagini, quelle dentro la sua camicetta e sotto la sua minigonna. Per Roberta non sarebbe stato un grave problema, se solo Gianfilippo le fosse stato minimamente simpatico ma, proprio in quelle occasioni, si era convinta che non lo era per niente e aveva cortesemente declinato il terzo invito.
    Ma ora il magico apparecchio sarebbe servito a far sorridere di nuovo la loro amica paralizzata, ad aiutarla a sopportare l’attesa degli interventi chirurgici e la lunga convalescenza.
    “Roberta, ho paura!”
    Anche Roberta era terrorizzata, aveva i crampi allo stomaco e i cuore che sembrava schizzare fuori dal petto. Ma non poteva darlo a vedere a Viola che era già abbastanza nel pallone per conto suo. Per l’occasione avevano indossato jeans e scarpe da ginnastica e si erano legate i lunghi capelli con nastri, quelli di Viola erano più lunghi e ricci e Roberta glieli aveva sempre invidiati. Roberta osservò ancora una volta il revolver giocattolo che teneva infilato nella cintura sotto il giubbotto nero.
    “Tra meno di mezz’ora sarà tutto finito. Ora parcheggiamo la macchina davanti al cancello d’entrata, in modo che non dia nell’occhio, quindi torniamo qui sul retro.”
    Le due ragazze si guardarono intorno, poi Viola saltò sul muretto e si afferrò all’inferriata mentre Roberta continuava a sorvegliare i paraggi, sicura che qualcuno avrebbe svoltato l’angolo proprio in quel momento, magari tre o quattro camionette dei carabinieri tutte insieme. Le due diciottenni in palestra se la cavavano discretamente, Roberta era un po’ più alta e slanciata, ma questa non era una partita di pallavolo, non dovevano fare una schiacciata o un servizio.
“Ho letto che una ragazza, nel secolo scorso, scavalcando un’inferriata come questa, si é ferita in mezzo alle gambe ed é diventata un maschio!”
 Solo a Viola potevano venire in mente cose simili.
    “Sono sicura che a te non può succedere.”
    “Di ferirmi o di diventare un maschio?” Un mese prima l’insegnante di educazione artistica aveva assegnato alla classe una prova di disegno, Viola era molto brava e si era offerta di farlo anche ad altri per la modica cifra di diecimila lire a testa. Tre ragazzi avevano accettato, ma Viola era sicura che l’insegnante avrebbe capito che il disegno era suo se non avesse imitato lo stile abituale dei suoi “clienti”. Solo che l’aveva fatto talmente bene che avevano preso il voto più basso, cioè esattamente lo stesso che avrebbero preso se avessero fatto loro il disegno.
    Viola, che aveva agito esclusivamente in base a “scrupolo professionale”, si riteneva un’incompresa dai tre furibondi che rivolevano indietro i loro soldi. E poi i soldi lei li aveva già spesi tutti in dischi.
    “Sbrigati! Sbrigati!” bisbigliò Roberta, a se stessa perché‚ Viola, ormai in cima, non poteva più sentirla. Quando Viola fu dall’altra parte, anche Roberta cominciò ad arrampicarsi. Quando fu in cima ebbe l’impressione di trovarsi a un’altezza vertiginosa, per un attimo le girò la testa come se fosse sul cornicione di un grattacielo, ma si fece forza e si lasciò cadere accanto alla sua amica dall’altra parte.
    “E... se c’è un cane?” Viola era pessimista di natura.
    “Ti ho detto che non c’è nessun cane! Non l’ho mai visto.”
   “E se l’hanno comprato oggi? Magari un dobermann?”
   Le due ragazze corsero veloci dietro la siepe e raggiunsero l’entrata di servizio, Roberta sapeva che non era mai chiusa a chiave. Non lo era nemmeno quel giorno, le due ragazze sgattaiolarono dentro e si trovarono in una cucina che era grande come il loro intero appartamento, i molti sportelli della credenza allineati sulla lunghissima parete e i molti strumenti di cucina allineati sul lunghissimo tavolo. Persino la macchina elettrica per il caffè! Viola si diresse rapidamente alla porta che dava sul resto della casa, ma Roberta l’afferrò per un braccio.
    “I foulard!”
    “Mannaggia! E’ vero!” Si avvolsero il volto negli ampi foulard multicolori, li annodarono dietro la nuca e si scrutarono a vicenda per controllare il risultato.  
    “Sei sicura che cosi non possiamo essere riconosciute?” chiese Viola.
    “Certo che sono sicura! E in ogni caso...”
    “E se riconoscono le voci?”
    “E muoviti!”
    Roberta apriva la marcia con la pistola finta in pugno pronta a fronteggiare qualunque nemico, ma non incontrarono nessuno e, per quanto tendessero le orecchie, non udirono nessun rumore oltre al loro cuore martellante. Ora Roberta non aveva più paura. Ora era dentro e doveva ballare, non poteva sbagliare e doveva andare fino in fondo.
   Le due intruse attraversarono un salone osservando incuriosite i fregi sui mobili di legno pregiato e sulle cornici dei grandi quadri acquerellati, le anfore d’argento e di porcellana. Salirono uno scalone di marmo coperto da un tappeto rosso e raggiunsero la stanza del magico apparecchio.
    Viola si buttò dietro il mobile a staccare la spina, il cavo dell’antenna e quello di collegamento al televisore, mentre Roberta teneva d’occhio il corridoio. Dai manifesti alle pareti li osservavano Alain Delon, Jean Gabin, Marlon Brando, Grace Kelly, Ingrid Bergman e tanti altri sorridenti, assorti, arrabbiati o spaventati. Improvvisamente Viola si bloccò.
    “Non ho chiuso la porta quando siamo entrate! E se qualcuno dalla strada vede quella porta aperta?”
    “L’ho chiusa io!”
    “Se ci mettono in prigione mio padre mi ammazza! E non siamo nemmeno più minorenni! Quanti anni possono darci?”
    “Viola! Vuoi stare un po’ zitta?”
    Roberta pensò che in realtà non era sicurissima di avere  davvero chiuso la porta ma, a questo punto, non potevano certo scappare solo per questo. Le sembrava che Viola stesse facendo un tale casino e si stupiva che non stessero già accorrendo una decina di domestici forzuti e incavolati.
    “Fatto! Andiamo!”
    Roberta tentò di sollevare il videoregistratore, ora chiuso alla meno peggio nello scatolone di cartone, e le sembrò che pesasse un quintale. Non ce l’avrebbe mai fatta. Mentre ci riprovava, Viola gridò.
    “Guarda! Guarda! Lo dobbiamo prendere assolutamente!”
    “Viola!”
    “Tranquilla! Lo porto io!”
    Viola aveva adocchiato la videocassetta di “Zabriskie Point” e l’aveva rapidamente infilata in una tasca del giubbotto.  Roberta si incamminò barcollando e ansimando, sicurissima che avrebbe inciampato e sarebbe rotolata per lo scalone, mentre la sua amica correva avanti a controllare che la via fosse sgombra. Si appiattirono dietro un angolo appena in tempo quando una  domestica di mezza età sali lo scalone portando una pila di lenzuola ripiegate, e ripresero la fuga quando la domestica scomparve dentro una delle tante camere.
    Ora dovevano uscire dalla porta principale, perché non se ne parlava nemmeno di scavalcare di nuovo l’inferriata con il pesantissimo scatolone. Raggiunsero l’anticamera che sembrava grande come la sala d’aspetto della stazione ma molto, molto più elegante.  Viola stava per aprire il portone quando un altro dubbio la bloccò.
    “Se scoprono che manca solo il videoregistratore, sospetteranno subito di me! Tutti sanno che mi piace il cinema!”
    “Viola!” Aveva supplicato Roberta da dietro lo scatolone che sembrava diventare più pesante ogni secondo che passava. Ma Viola aveva brillantemente risolto anche l’ultimo problema e aveva afferrato un orribile animaletto di porcellana. “Cosi penseranno a un normale ladro!” spiegò trionfante.
    A questo punto veniva la parte più rischiosa, cioè l’attraversamento del vialetto dove qualcuno avrebbe potuto vederle da qualche finestra, fino al cancello d’ingresso dov’era parcheggiata la ottocentocinquanta. Viola corse avanti per prima fino al pulsante d’ingresso e, quando vide il cancello che  lentamente ruotava, Roberta riprese fiato e s’incamminò. Le sembrò di sentire un “Ehi, voi due! Cosa state facendo?” ma si sforzò di ignorarlo e, barcollando, superò il cancello e raggiunse la macchina. Viola aveva già aperto il portabagagli, Roberta ci ficcò lo scatolone mentre la sua complice avviava il motore e, poco dopo, la macchina rombando svoltava l’angolo e s’immergeva nel traffico.
    Quando erano state lontane libere e incolumi, alla luce calda del sole, in mezzo al traffico e ai passanti indifferenti, Roberta aveva provato un’ondata di felicità e di eccitazione, una sensazione meravigliosa di potenza e di libertà Ci era riuscita, l’aveva fatto, aveva fatto una cosa difficilissima e rischiosissima, quasi eroica.
    Viola doveva provare qualcosa di molto simile perché‚ non smetteva di ridere e le due ragazze, fermata la macchina, si erano abbracciate con le lacrime agli occhi, prima di correre da Elisabetta a dirle che avevano un regalo per lei.


Ora Roberta ricordava quel terrore prima e quella sensazione di potenza e di libertà dopo, sensazioni forti e vere che non aveva mai più ritrovato in seguito. Elisabetta era guarita ma non era andata lo stesso alle Universiadi, aveva sentito dire che era diventata segretaria in uno studio notarile. Le sembrava che Viola si fosse sposata, avesse avuto un figlio  e si fosse separata, ma non ne era sicura. Si erano viste ancora due o tre volte, dopo i tempi dell’istituto commerciale, poi più nulla.
    Ma Roberta ricordava bene le sensazioni di quel giorno e, ricordandole, stava bene, molto bene. L’altra se stessa non interruppe il flusso dei ricordi, aspettò che fosse lei a parlare per prima.
    “Non sono sicura, quella volta, di aver fatto la cosa migliore. Allora ero una ragazzina incosciente...” disse Roberta e, scoppiando a ridere, aggiunse subito: “Sono sicura che quella pistola giocattolo non avrebbe ingannato nessuno nemmeno per un secondo!”
    “Il punto non è se hai fatto bene. Il punto è che è stata una cosa tua. Tu l’hai pensata e tu l’hai fatta. Avevi paura, ma l’hai fatta lo stesso. Tu decidevi della tua vita, pensavi e agivi.”
  Sì, allora era forte e libera, ma poi era tutto finito. Non aveva mai più avuto paura di niente perché non aveva più tentato di fare niente. Aveva sposato quell’uomo che l’aveva mutilata di tutte le possibilità, tutte le emozioni. Le aveva rubato il coraggio, l’intelligenza e la fantasia. Ma l’altra se stessa continuava.  
    “Non devi addossare agli altri le colpe che sono solo tue. La tua vita ora è vuota perché lui non ti ama più, non ti desidera più e ti disprezza? La colpa è tua perché la tua vita era diventata solo lui.”
   Roberta capiva confusamente che l’altra se stessa aveva ragione. Ma ricominciare tutto da capo... era troppo difficile... e nel paese dei fantasmi stava troppo bene. Ora dalla grande radio sentiva Patty Pravo che cantava: “No, ragazzo, no \ tu non mi metterai \ tra le dieci bambole \ che non ti piacciono più”.
    “C’è un altro motivo per cui devi tornare.” mormorò l’altra se stessa, e continuò dopo una breve pausa: “Ti ho detto che io sono una componente della tua personalità. Ma non sono l’unica. C’è un’altra componente, che sono i tuoi pensieri cattivi e che ora è diventata un essere malvagio e crudele. Gli antichi conoscevano questi esseri, li chiamavano larve, empuse,  incubi, succubi. Poi se ne sono dimenticati.”
    “La mia... la mia larva? Il mio incubo?”
    “Prima era dentro di te, come dentro ogni persona, ma ora è completamente libera, e soffre, ha paura e odia. Vaga senza pace per il mondo e vuole uccidere e distruggere.”
    Be’, se avesse fatto del male a chi  aveva fatto del male a lei, non sarebbe poi stato tanto ingiusto. Ma Roberta represse subito questo pensiero, perché ormai sapeva che doveva tornare a vivere a prescindere dagli altri, a prescindere da suo marito. Non le importava più se chi le aveva fatto del male avrebbe ricevuto del male a sua volta.  
    “Cosa posso fare?” chiese.
     “C’è un solo modo per fermare la tua larva. Se tu torni dall’altra parte, se tu torni a vivere, allora saremo di nuovo una cosa sola, e anche quell’essere tornerà dentro di te.”
    “Se tu e la larva siete due componenti della mia personalità, quali sono le altre componenti? E dove sono ora?”
    “Non lo so, non so nemmeno esattamente quante siamo. Non siamo sempre le stesse, spesso cambiamo, a volte siamo di più, altre volte di meno. Alcune di noi muoiono e altre nascono.”
    Roberta e l’altra se stessa si abbracciarono e, quando si sciolse dall’abbraccio, Roberta si accorse di essere di nuovo immersa nella sostanza gelatinosa percorsa dalle correnti vorticose e dalle bolle pulsanti, ed era sola.
    Di nuovo i dubbi e la paura, ma fu solo un attimo. Ormai aveva deciso. Per prima cosa doveva ritrovare il suo corpo, il suo corpo vero, non il simulacro che l’aveva accompagnata nel paese dei fantasmi.
    Si concentrò, incurante delle fitte che la trafiggevano implacabili. Tutte le bolle esplosero e si dissolsero, e poi si diradò anche la sostanza gelatinosa, come risucchiata da qualche parte, da una specie di tubo di scarico cosmico, e al suo posto ci fu solo più un immenso abisso nero.
    Ora le fitte erano lancinanti, ma Roberta continuò e alla fine anche il dolore si dissolse, per lasciare il posto a un prurito, un indolenzimento, una sensazione collegata a un organo, un arto. Sangue e pelle. Un corpo, anche se ancora non lo vedeva.


Le auto avevano già acceso i fari e anche i lampioni diffondevano la loro luce biancastra che si rifletteva nelle pozzanghere ai bordi dei marciapiedi. L’autunno incombeva, durante il giorno aveva piovuto ma ora aveva smesso. I tram sferragliavano e, dai finestrini, Fabio vide che erano pieni. Anche i pedoni si stavano affrettando, cercando di scavalcare le pozzanghere.
    Aveva il giaccone Nabuk elegante sopra una rozza camicia di cotonaccio, un paio di vecchi pantaloni di fustagno e un paio di scarponi da campagna. Aveva anche una borsa a tracolla.
    Tutti i notiziari avevano riferito del tragico incidente del supermercato. Un caso su un  milione, dicevano i commentatori. Un’auto parcheggiata era piombata dentro il supermercato, forse si era allentato il freno a mano, forse la strada era in leggera discesa e, tra cocci di vetro e urla di panico, aveva investito una cliente che stava facendo la coda davanti alla cassa. Un’unica vittima che era morta sul colpo, e quella vittima era Viviana.
    Ma il notiziario regionale aveva aggiunto un dettaglio. Tutti i testimoni, nonostante lo choc, giuravano che nessuno guidava l’auto, che era stato davvero un tragico incidente. Ma la telecamera del supermercato aveva filmato tutto, e sul nastro della telecamera si vedeva una figura umana al volante dell’auto, ed era una donna. Il notiziario regionale aveva mandato in onda il fotogramma, l’immagine era sbiadita, e poi c’erano i riflessi sul parabrezza, ma Fabio aveva riconosciuto immediatamente quella donna, anche se sapeva essere impossibile.
    E prima c’era stato anche quell’urlo venuto dal nulla il giorno prima, quel divano squarciato in una stanza dove non era entrato nessuno...
    Non si era certo accontentato di un’immagine fuggevole al telegiornale regionale. L’avvocato Comazzi conosceva le persone giuste, sapeva a chi rivolgersi per un favore tanto insolito e aveva svolto bene anche quell’incarico. Prima di informare Fabio che d’ora in poi rinunciava ad assisterlo, anche per la causa con la direzione sanitaria del San Domenico Savio.
    Quella mattina, in una saletta degli studi locali della RAI, Fabio aveva visionato la registrazione completa, aveva potuto bloccare e ingrandire l’immagine, e ora non aveva più dubbi. Al volante dell’auto che aveva investito Viviana, anche se i testimoni presenti nel supermercato non avevano visto nessuno, c’era sua moglie, che da dieci giorni era collegata a un respiratore automatico nel reparto rianimazione.
    Lei era tornata, era andata da Viviana e ora sarebbe venuto da lui.  
    E’ assurdo e ingiusto che la nostra mente cessi di esistere ma, aveva detto donna Clorinda, esistono anche le cose assurde e ingiuste. Ma quel ragionamento era reversibile, pensò Fabio con la mente annebbiata per la notte precedente passata in bianco, perché anche quello è il nostro punto di vista, il punto di vista di chi vive e si muove in questo mondo.
    Per il feto prima della nascita il ventre materno è tutto il mondo, è l’unico mondo esistente e possibile, buio, silenzioso, caldo e morbido, e ci sta benissimo. Non immagina nemmeno che potrebbe esistere un altro mondo completamente diverso, non capirebbe dove questo mondo potrebbe stare. Se anche lo concepisse, lo troverebbe orribile con i suoi rumori assordanti, le sue luci abbaglianti e i suoi spigoli duri mentre noi, essendoci abituati, lo troviamo assolutamente normale.
    Se la morte fosse lo stesso? Che non esiste niente dopo la morte è solo il punto di vista di chi, vivendo in questo mondo, non concepisce nessun mondo diverso da questo, dopo di questo, da qualche altra parte. Ma se invece esistesse, questo spiegherebbe perché lei era tornata, perché era andata da Viviana e ora stava venendo da lui.
    La facciata dell’ospedale comparve con la sua croce rossa sul cerchio che una volta era stato bianco stampato sul muro esterno, l’insegna luminosa sopra la garitta del guardiano e l’androne illuminato. Fabio proseguì, girò l’angolo e arrivò davanti all’ingresso del pronto soccorso. Salì lungo la rampa che viene usata dalle ambulanze.
    Fabio attraversò una porticina e si trovò in un atrio illuminato dal neon, dove campeggiava un gigantesco cubo metallico su ruote con stampato sopra BUCATO SPORCO. Entrò nell’ascensore e premette il pulsante del terzo piano, quello del reparto rianimazione.
    “In cosa posso esserle utile?” gli chiese l’infermiera robusta con i capelli raccolti in una crocchia. Sapeva chi era quell’uomo dall’aria stravolta, l’aveva già visto il giorno prima, e anche il giorno prima ancora. Erano venti giorni che lo vedeva, da quando era arrivata la donna in coma profondo.
    “L’avete già uccisa?”
    “Prego?”
    “Ha capito benissimo, devo impedire che uccidiate mia moglie approfittando del fatto che non può difendersi.”
    “Forse non si sente bene, signor Rinaldi, credo sia meglio che parli con il medico...”
    “Non devo parlare con nessuno, devo solo andare da mia moglie.”
    L’infermiera gli aveva posato una mano sul braccio e stava esercitando una lieve pressione, mentre si sforzava di sorridere. Ora, da vicino, aveva visto gli occhi annebbiati e torbidi dell’uomo, ed ebbe paura.
    “La prego...”
    “Non devo parlare con nessuno! E non ho bisogno di niente!”
    “Se vuole attendere un attimo...”
    “No!”
    Fabio si staccò rabbiosamente dalla donna, le voltò le spalle e si diresse velocemente nella direzione che ormai conosceva bene. Arrivò davanti alla camera 4, controllò il nome sulla targa e afferrò la maniglia. Stava per entrare quando arrivarono  la stessa infermiera, un infermiere e un medico. Nel silenzio totale del corridoio Fabio sentì distintamente i passi che si avvicinavano di corsa e, poco dopo, la voce. Mise la mano sotto il giaccone.  
    “Scusi, signor Rinaldi...”
    Quando Fabio si voltò, impugnava la Beretta automatica e la puntò contro il gruppo che si fermò di colpo, gli occhi e le bocche aperte per lo stupore. Teneva l’arma con due mani e le braccia tese.
    “Mio Dio!” gridò l’infermiera.
    “Si calmi, signor Rinaldi.” disse il medico. Era grasso e stempiato, ma non era molto anziano. Aveva un’orribile cravatta a pallini allentata sotto il camice bianco sbottonato. “Cos’ha intenzione di fare?”
     “Io sono calmissimo, non vi preoccupate per me.”
     “Senta, posi quella cosa, le sembra il caso...” l’infermiere fece un passo avanti e allungò una mano. Aveva vent’anni, il viso allungato e un folto ciuffo di capelli castani.
    “State indietro.” gridò Fabio. “Non mi toccate! Andatevene! Andate via!”
    “Lasci stare, Morini. Facciamo come dice.” Il medico posò una mano sulla spalla dell’infermiere. Tutti e tre si diressero verso l’ascensore, voltandosi ogni tanto a guardarlo, forse sperando che avesse cambiato idea. Fabio attese che le porte dell’ascensore si fossero chiuse, quindi entrò nella camera 4.  
    Sua moglie era nel letto, le braccia erano distese accanto al corpo e appoggiate  sopra le lenzuola e le coperte assurdamente stirate, pulite e rimboccate. La testa era affondata nel soffice cuscino, gli occhi chiusi, i capelli tagliati cortissimi. Alla fronte erano ancora applicati gli elettrodi che la collegavano all’elettroencefalografo. Nella vena di un braccio entrava il catetere che, arrivando fino al cuore, registrava la pressione venosa centrale. C’erano sempre i due cerotti sulla bocca che bloccavano la cannula del respiratore automatico.
    Rispetto a quando Fabio l’aveva trovata nel letto matrimoniale, ora il colorito era roseo anche se un po’ pallido, mentre l’espressione era distesa, quasi serena. Il petto si alzava e si abbassava regolarmente e, nel silenzio della camera, risuonava distintamente il respiro quasi lamentoso. Morta? Chi credevano di prendere in giro?
    Fabio aprì la borsa, estrasse una lunga catena, la srotolò, la girò intorno alla maniglia e poi dietro due elementi del termosifone. Quindi bloccò la catena con un grosso lucchetto a sezione quadrata. Non sarebbero riusciti a entrare tanto in fretta.
    Sedette sulla sedia, la pistola in grembo. Accanto al letto di sua moglie c’erano gli altri due letti liberi, i contorni erano resi indistinti dall’ombra che avvolgeva tutto.
    Fabio non accese la luce. Aveva tempo per pensare, per ricordare quell’altra volta in cui aveva incontrato la morte sulla sua strada, e la morte aveva lasciato in lui un segno. Per farlo, Fabio doveva tornare molto indietro nel tempo, prima ancora di conoscere la donna che sarebbe diventata sua moglie e che ora era su quel letto.
    Doveva tornare al tempo in cui era magro, ingenuo, timido e imbranato, e portava i capelli lunghi.


Appena sentì lo squillo del citofono, Fabio non ebbe bisogno di chiedere chi era, mollò la mezza frittata nel piatto sulla tavola, si legò i lacci delle scarpe con la velocità della luce e si precipitò alla porta.
     “Non dopo mezzanotte!” questa era sua madre che gli gridava dietro.
   Non tentava più da tempo di impedirgli di uscire la sera, ma si illudeva ancora di influenzare la sua vita ponendogli dei limiti orari che lui invariabilmente violava. Ma lei si accontentava che non li rifiutasse apertamente, anche se ogni volta trovava una scusa diversa per rincasare più tardi.
    “Certo, mamma, certo!” gridò Fabio aprendo la porta, mentre si infilava al volo la giacca marrone sulla camicia a quadri.
    Suo padre non aveva alzato gli occhi dalla “Gazzetta del popolo” aperta sulla tavola apparecchiata.  Vicedirettore alla Biblioteca Civica, lui invece approvava che suo figlio si divertisse, purché‚ “non si mettesse nella politica”. Del resto, studiava e i voti al liceo scientifico erano buoni, ed era quello che contava.
    Fabio scese le scale di corsa. Sul marciapiede lo attendevano Maurizio e Pasquale, diciott’anni come lui e, come lui, iscritti all’ultimo anno, rispettivamente di un istituto tecnico e di un liceo artistico. Maurizio era un po’ più alto e più robusto degli altri e indossava una giacca militare grigioverde e un paio di scarponi neri, Pasquale aveva sulla faccia alcuni ciuffi di peli che ancora non si potevano definire barba, un paio di occhiali, un giubbotto di tela di jeans, di jeans anche i pantaloni, un paio di scarpe da ginnastica. Tutti e tre avevano una collanina e un braccialetto di perline.
    Si sentiva la primavera nell’aria, cominciava appena a diventare buio e i lampioni erano ancora spenti. Poco dopo erano tutti e tre stravaccati nel buio della sala di un cinema d’Essai a sgranocchiare patatine e caramelle e a commentare sottovoce “Seize the time”, un film-documentario sulle Pantere Nere.
    Quell’anno Fabio aveva assistito ad alcune assemblee, sia nel liceo che all’università. Quelle che si svolgevano all’università erano le assemblee cittadine, il giorno prima degli scioperi. Mai fino in fondo, perché‚ dopo mezz’ora invariabilmente si annoiava a morte. Alcuni degli studenti più anziani stavano seduti alla “presidenza” battendo la mano sulla cattedra per imporre il silenzio quando il clamore diventava insopportabile o per invitare a concludere chi si dilungava troppo. In ogni caso, riusciva a seguire gli oratori finché‚ parlavano di selezione, costo dei libri e dei trasporti, ma perdeva il filo quando cominciavano a dire troppe parole difficili che con la scuola non c’entravano niente.
    Era anche andato a qualche corteo, le prime volte si era divertito, ma poi aveva cominciato ad annoiarsi anche lì, i cortei erano tutti uguali, non capiva come qualcuno potesse credere di ottenere qualcosa sfilando per le strade. Se lo scopo era divertirsi e stare insieme, tanto valeva dirlo chiaramente.
    E poi Fabio aveva intenzione di prendere la maturità, andare all’università e laurearsi il più in fretta possibile, passava tutto il tempo a studiare e solo raramente si lasciava convincere da Maurizio e Pasquale ad andare al cinema o in giro per “piole”.
    Anche Pasquale si sarebbe iscritto all’università, ma solo per rimandare il servizio militare e per filare le ragazze. Le ragazze erano anche l’unico motivo che lo portava ogni tanto alle assemblee a cui Fabio, invece, assisteva solo se proprio ci si trovava in mezzo.
    Il più militante di loro era sicuramente Maurizio, che cercava sempre di propinargli documenti e giornaletti che loro a volte prendevano senza poi leggerli. Era stata sua la scelta del film di quella sera ma l’America, in fondo, intrigava tutti e tre.
    Da quel poco che riusciva a capire, Fabio ammirava tutti coloro che dedicavano tanto tempo senza essere pagati per rimediare alle ingiustizie della società, o che addirittura volevano fare la rivoluzione. Solo, non riusciva a crederci, non riusciva a ragionare in termini di grandi numeri, di fasi storiche e di situazione galattica o cosmica, come sembravano fare loro.
    Cosa univa tre ragazzi dai gusti cosi diversi? I fumetti, anzitutto. Avevano cominciato con Capitan Miki, Blek Macigno e Nembo Kid per poi passare a Tex, Corto Maltese e Valentina. Essendo tutti e tre poveri, nel senso che i rispettivi genitori non davano loro i soldi necessari per comprare tutti i fumetti che volevano, il che avrebbe equivalso a non pagare nient’altro e a farsi sfrattare per morosità, erano assidui clienti delle bancarelle e si indicavano l’un l’altro quelle dove era possibile trovare i prodotti più ghiotti, per poi leggerli e discuterli seduti ai tavoli delle “piole” dove passavano le ore delle mattine che “tagliavano” da scuola. Neanche in questo caso, però, Maurizio riusciva a sottrarsi alla sua tendenza a mettere tutto in politica.
    “Cosa intendi per ‘conflitto d’interessi’?” quella volta Fabio credeva di aver capito male.
    “Tex è capo dei Navajos e al tempo stesso agente della riserva, cioè rappresentante del governo americano, giusto?”
     “Sì, e allora?”
    “Be’, questo è un conflitto d’interessi! Tex non può essere tutte e due le cose contemporaneamente! E’ come se uno in una fabbrica fosse sia delegato degli operai che direttore del personale!”
    Fabio pensò che, se Tex riscuoteva la fiducia illimitata sia del popolo dei Navajos che del governo americano da ormai trent’anni, come potevano metterla in discussione proprio loro? Ma si astenne da questo commento, ormai sapeva che Maurizio non aspettava altro per lanciarsi in un comizio che coinvolgesse Marx, Lenin, Kit Carson e Tiger Jack.
     E poi le ragazze. I tavoli delle stesse “piole” servivano ai tre amici anche per elaborare dotte analisi su quelle che conoscevano e frequentavano. Era l’età in cui si crede di sapere ormai tutto sulla materia. Eppure, incredibilmente, si sbaglia sempre qualcosa e, alla fine, si prende seriamente in considerazione l’ipotesi che le ragazze siano tutte d’accordo per farti impazzire.
   Come non pensarlo, quando le vedi parlare fitto fitto tra loro con i loro risolini, le loro chiome svolazzanti e i loro orecchini, nastrini e ninnoli assurdi? Pasquale e Maurizio si erano conosciuti proprio perché‚ il primo era andato con la ragazza del secondo, avevano fatto a pugni e poi erano diventati amici. 
   Quando le luci del cinema si erano riaccese, i tre amici avevano raggiunto l’angolo della piazza dove avevano l’appuntamento. Almeno cosi aveva detto Maurizio.  
    “Io adesso mi farei una pizza.”
    “Non c’è tempo. Fulvio deve passare proprio adesso.”
    “Dì, Fabio, hai rivisto Laura?”
    “No, l’ho solo sentita per telefono.”
    “Che ti dicevo? Dammi retta, io le donne le conosco.”
    “La prima volta non c’era, ma poi ho riprovato e alla fine...”
    “Cosa, cosa?! Stai dicendo che le hai telefonato tu? Ma allora sei proprio scemo!”
    “E lascialo in pace, no? Quand’é che ti fai gli affari tuoi?”
    “Ma si può sapere cosa aspettiamo? Avremmo fatto in tempo a mangiare dieci pizze!”
    “E stai calmo, no?”
   “Eccolo, è Fulvio.”
    Poco dopo la cinquecento accostò e i tre amici vi salirono. Fabio riconobbe Fulvio, era uno studente universitario, barba appena accennata e giacca di velluto a coste, l’aveva visto qualche volta seduto alla presidenza delle assemblee, anche se parlava raramente. Maurizio fece le presentazioni e l’auto ripartì facendo un terribile fracasso. La marmitta doveva essere rotta.
    Dopo circa mezz’ora l’auto imboccò una strada che si inoltrava tra i campi. Niente lampioni, solo i coni di luce creati dai fari che precedevano la cinquecento. Sullo sfondo, i puntini luminosi delle finestre sulle sagome nere dei palazzi.
    Improvvisamente apparvero altre luci in lontananza, tutte raggruppate quasi a formare un unico bagliore scintillante, e la notte si popolò di uomini e donne che camminavano ai bordi della strada. La cinquecento si fermò tra altre auto, Vespe e motorini parcheggiati in uno spiazzo di terra battuta, e i quattro giovani scesero.
   Il bagliore che avevano visto veniva da torce. Molte torce piantate per terra, e un tappeto di garofani rossi, intorno a una cassa da morto aperta posata su un tavolo di legno, il coperchio posato accanto. Fabio non osò avvicinarsi alla cassa, ma capì che c’era un corpo.
    Accanto alla cassa c’erano le bandiere rosse, alcune sdrucite e fissate ad aste di legno scheggiato, altre con la frangia dorata e la falce e martello ricamata e, in cima a una lunga asta, anche una solitaria bandiera nera con una A cerchiata. Sullo sfondo, la sagoma nera di un palazzo che incombeva come una bestia minacciosa. Nessuna finestra era illuminata. Tutti gli abitanti del palazzo erano lì nello spiazzo, intorno all’uomo dentro la cassa.
    Un uomo anziano e una donna giovane si avvicinarono, Fulvio parlò con loro, Fabio si guardò intorno senza sapere bene cosa fare, e Maurizio gli fece segno di avvicinarsi.
    “Hanno ammazzato Nicola.”
    “Nicola? E chi è Nicola?”
    Nicola Fiorillo aveva ventitré anni, aveva interrotto la scuola nel suo paesino dell’entroterra siciliano perché‚ i suoi genitori, contadini, non avevano abbastanza soldi, ed era venuto al nord a lavorare alla catena di montaggio della grande fabbrica. Aveva partecipato agli scioperi e ai cortei dell’autunno caldo e a quelli successivi, la sua intelligenza e determinazione l’avevano subito trasformato in un punto di riferimento per i suoi compagni di lavoro, e poi anche per gli operai di altre fabbriche, per i disoccupati e per gli studenti. Prendeva la parola in tutte le assemblee ed era presente a tutti i picchetti all’alba accanto ai falò, sembrava non si stancasse mai ed era sempre allegro.
    I carabinieri una volta l’avevano inseguito fin dentro il cancello della fabbrica, dove era stato coperto e appoggiato dai suoi compagni di lavoro. Alla fine, durante l’ultima stagione contrattuale, il padrone era riuscito a licenziarlo per rappresaglia politica ed era in corso il processo davanti alla Pretura del Lavoro.  
    Il licenziamento per Nicola aveva solo voluto dire cambiare il posto di lotta. Era diventato un organizzatore delle occupazioni di case, aveva contribuito a fondare il comitato di lotta che aveva sede in quel palazzone della periferia degradata e priva di servizi.
   Paolo Munari, invece, aveva quarantun anni, era una guardia giurata e possedeva due alloggi e due auto. Per ospitare la seconda auto si era appropriato del garage annesso alla portineria del palazzo, e il comitato gli aveva chiesto di cederlo per potervi fare le riunioni. Le riunioni del comitato avvenivano in uno degli alloggi, ma spesso duravano fino a notte inoltrata e le famiglie con figli piccoli si erano lamentate. Paolo Munari aveva rifiutato.
    Un giorno le donne del comitato, di loro iniziativa, avevano spinto l’auto di Munari fuori dal garage e avevano cambiato la serratura. Era arrivata la moglie di Munari, aveva cominciato a gridare: “Porci, puttane, cornuti!” e a graffiare e tirare schiaffi. Le donne del comitato erano indecise se reagire, erano arrivati alcuni compagni tra cui Nicola che diceva: “Lasciatela stare, lasciatela stare”.
    Era arrivato anche Munari e, zitto zitto, si era avvicinato a Nicola  che continuava a dire: “Lasciatela stare, lasciatela stare.”
    Munari aveva tirato fuori la pistola, l’aveva puntata contro Nicola e gli aveva sparato in piena fronte. Nicola aveva detto “Non ci vedo, non ci vedo” ed era piombato a terra. La moglie di Munari aveva acceso il motore dell’auto, Munari ci era salito ed erano partiti, con i ragazzini che gli tiravano dietro le pietre. Nicola era morto alle 19,30 di un giorno di primavera.
   Mentre Fabio aveva ascoltato la storia di Nicola, altre persone erano arrivate e ora tutti si erano disposti in cerchio intorno alla cassa posata sul tavolo. I carabinieri avevano cercato il giorno prima di portare via il cadavere, ma gli abitanti del palazzone avevano detto: “Nicola resta qui”.
    Senza volerlo, Fabio si trovò in prima fila e, alla luce danzante delle torce, si trovò a guardare le facce tese e tristi, gli occhi rossi e lucidi di quegli uomini anziani con giacconi di pelle consumata, di giovani con giubbotti o eskimo, di donne cinquantenni e di ragazze con i capelli raccolti in trecce o in code.  Alcune di quelle persone le aveva intraviste in qualche assemblea o qualche corteo.
    Qualcuno cominciò a cantare sommessamente e, a poco a poco, tutti si unirono al coro. Cantavano “L’internazionale”, Fabio lo sapeva perché‚ l’aveva sentita in alcune manifestazioni, ma allora era un canto festoso e battagliero, mentre ora era lento e solenne.
    Fabio non aveva mai riflettuto sulla morte. Sapeva che prima o poi ci deve toccare e speriamo che succeda il più tardi possibile, possibilmente senza soffrire. Purtroppo ogni tanto muoiono persone che amiamo, e in questi casi bisogna farsi forza e andare avanti. Quand’era morto suo zio, tutti i parenti erano vestiti di nero, c’erano stati il furgone, la corona di fiori, i ceri, la zia pallida con la veletta nera sostenuta da due suoi cugini.
    Per fortuna la medicina moderna rende il “triste evento” molto più raro di una volta. Una disgrazia, ecco il termine esatto, qualcosa da evitare e fuggire, qualcosa da nascondere e di cui non parlare. Se proprio non se ne può fare a meno, si dice “E’ mancato” oppure “Non è più tra noi.” Fabio non pensava che ci fosse qualche altro significato n‚ che fosse possibile trovarvelo.
    Ma ora quel coro lento e triste alla luce delle torce, senza accompagnamento musicale, quei volti assorti e dignitosi, stavano creando in lui una consapevolezza struggente e sconosciuta.   Dunque la morte è anche quello, è cosa lasci agli altri, cosa gli altri ricordano di te, come gli altri sono cambiati anche per opera tua quando tu non ci sei più. Con questa nuova consapevolezza, Fabio  si accorse di invidiare quelle persone.
    Le invidiava perché‚ avevano conosciuto Nicola, perché‚ avevano discusso, litigato e riso con l’uomo che ora era morto e che loro stavano ricordando. Quelle persone ora erano unite in un sentimento comune e forte da cui lui era irrimediabilmente escluso.
    Quando il canto era finito, era seguito un lunghissimo silenzio, poi molte voci all’unisono avevano scandito: “Compagno Nicola, sarai vendicato!” due, tre, quatto volte.


Roberta sentiva le sue mani, i suoi piedi, le sue dita come se si trovassero a molti chilometri di distanza nell’abisso nero che la circondava. Tentò di muoverle attraverso quella distanza immensa.
    Ora sapeva che poteva farlo. Poteva tornare indietro perché non aveva più bisogno di nessun altro. Era più forte e non aveva più paura. Poteva vivere e, vivendo, tutte le componenti della sua personalità sarebbero di nuovo state unite. Anche la componente malvagia (malvagia? questo è un giudizio morale, e Roberta non voleva più giudicare nessuno) avrebbe istantaneamente cessato di esistere come entità separata.
    Un suono venne dall’abisso nero. E poi un altro suono.
    “Ha mosso una mano!”
    “Una mano?! Sei sicura?!”
    “Sicurissima! Guarda! Lo sta facendo di nuovo!”
    “Cavoli! Chiama il dottore!”
    Improvvisamente l’abisso fu meno nero. Si stavano lentamente allargando degli squarci e, attraverso gli squarci, Roberta intravedeva delle forme che, sul momento, le sembrarono buffe e grottesche. Poi capì che erano una lampada, lo stipite di una finestra, l’elemento di un termosifone, il cassetto di un comodino. Ma non riusciva a ricomporre tutte quelle forme in un insieme logico e coerente. Le era sembrato persino di vedere qualcosa che si muoveva, qualcosa che doveva appartenere a un corpo umano.
    Un’altra voce venne dall’abisso: “Dottore, presto, camera 8, secondo piano!”


Fabio, seduto nella penombra della camera 4 del terzo piano, non sapeva perché gli fosse tornata in mente la veglia funebre di Nicola Fiorillo di tanti anni prima, nell’insolita situazione in cui si trovava in quel momento.
    Dov’era finito il ragazzo magro dai capelli lunghi che, incantato, aveva ascoltato quel canto lento e triste alla luce delle torce? Come aveva potuto quel ragazzo trasformarsi nell’abile e astuto manager in abito firmato?
    Provò a ricordare ancora. Pasquale aveva avuto problemi di droga e si era trasferito a Londra ma, quand’era successo, non si frequentavano più da tempo. Una sua ex fidanzata gli aveva detto che Maurizio ora faceva il rappresentante di articoli sportivi. Fabio aveva buttato via da tempo tutti i suoi fumetti, e probabilmente i suoi due antichi amici avevano fatto lo stesso.
    Si riscosse udendo l’urlo di una sirena. Era impossibile capire se si trattasse di un’ambulanza o della polizia. Certo quel medico aveva dato l’allarme, e forse in quello stesso momento stavano discutendo cosa fare con quel pazzo che s’era barricato nella camera d’ospedale dove giaceva sua moglie morta. Forse l’avevano già anche detto alla televisione.
    Bastavano poche ore, al massimo un giorno. Lei stava tornando, lo sapeva, ma per rivivere doveva trovare il suo corpo intatto e funzionante. E lui gliel’avrebbe fatto trovare, lui avrebbe impedito che distruggessero quel corpo immobile e silenzioso.
    Poi, facessero di lui quello che volevano. E andasse a farsi fottere anche la fabbrica di computer e programmi, a Ruggero certo non sarebbe dispiaciuto occuparsene da solo.
    Improvvisamente sentì un odore di marcio e dolciastro che, partendo dalla porta di vetro e acciaio, stava invadendo la camera. Finalmente era arrivata, ora sarebbe rivissuta, ora avrebbe capito quanto lui l’amava, quanto era pentito, e l’avrebbe perdonato.
    Tornò a guardare la donna nel letto, i cerotti sulla bocca, i capelli neri tagliati cortissimi, gli elettrodi, i macchinari e i monitor, il respiro sempre regolare. Tutto era pronto. Tra poco lei si sarebbe alzata, non avrebbe più avuto bisogno di quel tubo. Non avrebbe più avuto bisogno di nessun altro che di lui.
    Si voltò e vide la sagoma umana che, al di qua della porta, lentamente si ricomponeva in un alone luminoso argenteo. Ogni atomo e ogni molecola ruotava  scintillando a mezz’aria e andava al suo posto, e tutti insieme formarono il volto, i capelli, il tronco, le braccia e le gambe di sua moglie. L’ultima cosa furono i colori che completarono la donna-larva-che ora gli stava di fronte.
    Mio Dio, aveva ancora quelle calze di lana nera sotto la gonna pieghettata, quel berretto di lana sulla folta chioma di capelli  neri, quella lunga sciarpa nera sulla giacca a vento gialla, come la prima volta che l’aveva incontrata, tanti anni fa, in quel corridoio della facoltà di lettere e filosofia!
 Poi si formarono anche la bocca, gli occhi, le dita. Gli occhi ruotarono velocemente e si fissarono su di lui. Erano occhi fiammeggianti di odio e rabbia e sofferenza.
Fabio non tentò nemmeno di alzarsi. Disse: “Vieni, Luisa. Ti aspettavo. Avevo capito che eri tornata per me.”
E la donna-larva si avventò sull’uomo con forza sovrumana.


Ora Roberta aveva la visione d’insieme e sapeva di essere stesa in un letto. Era in una camera d’ospedale, non poteva sbagliarsi, era immersa nella penombra perché le tapparelle della finestra erano abbassate, ed era un penombra riposante e confortevole.
Girò lentamente la testa di pochi millimetri, e vide degli strani apparecchi collegati a dei cavi, e un monitor dove lampeggiavano luci e segnali, e un tubicino che le usciva dal braccio. E vide un giovane con gli occhiali e una ragazza vestiti con camici bianchi. La stavano guardando, e tutti e due sorridevano.
Non vide invece suo marito Sebastiano De Angelis, certo preso dal suo studio pubblicitario, e di questo fu contenta.
Decise che per prima cosa avrebbe telefonato a Elisabetta e Viola.


La cronaca cittadina riferì la morte di Fabio Rinaldi, nella camera d’ospedale dove si era chiuso. A trovare il suo cadavere erano stati due carabinieri che si erano introdotti nella camera passando dalla finestra dopo essersi calati dal tetto. Ma le circostanze della morte dell’uomo apparvero subito molto strane. I segni sul collo sembravano indicare che era stato strangolato, sennonché l’uomo era solo con il cadavere di sua moglie Luisa Bellato nella camera chiusa dall’interno, lui stesso aveva bloccato la porta con una catena e un lucchetto. Inoltre l’elettroencefalografo a cui era ancora collegato il cadavere della moglie indicava un’intensa attività cerebrale che era durata alcuni secondi, in corrispondenza dello strangolamento del Rinaldi, per cessare subito dopo definitivamente.


Torino, 14 luglio 2002